Ore 3,34 del 24 agosto 2016

Un tremore della libreria e del letto, nonché dell’armadio nell’altra camera, mi sveglia dal torpore che, da tempo, caratterizza le mie notti dal sonno molto irregolare.

Altrettanto accade a mia moglie ed entrambi, memori dell’analoga situazione del 6 aprile 2009, che fu più forte tanto da farmi intuire un terremoto molto violento se, noi, così lontani dall’Aquila, l’abbiamo “avvertito” distintamente; così fu, infatti, e tutti sappiamo quale catastrofe avvenne.

In quest’occasione, la dimensione del sisma che sembrava più contenuta, ci ha indotto a pensare a un epicentro più lontano o a una magnitudine inferiore.

Nessuno di noi due ha più ripreso a dormire e attraverso la televisione abbiamo iniziato a seguire le notizie sull’evento, che, più il tempo trascorreva, più delineavano un quadro della situazione dei numerosi paesi e frazioni coinvolte, sempre più drammatico.

Tutto il resto della notte proseguì così.

Solo la mattina presto, mentre proseguivamo la visione dei notiziari televisivi, mi venne in mente di verificare l’orario del sisma dell’Aquila, sul quale scrissi una pagina in occasione del funerale di 205 vittime delle 290 accertate: l’orario era quello delle 3,32 quasi identico a quello in questione. Ne ho fatto cenno su FB solo per evidenziare la coincidenza sconvolgente ma occasionale.

La mia iniziativa attuale, dopo l’introduzione che è una nota di colore, ha ben altri intenti.

In primis devo ammettere, essendo sempre stato molto critico nei confronti delle omelie funebri, di esser rimasto molto colpito da quella del vescovo d’Ercole, del tutto non convenzionale, per la sua semplicità, chiarezza e vicinanza al sentire dei sopravvissuti.

La mia età ha conosciuto numerosi di questi tragici eventi legati alla diffusa rischiosità geologica della nostra terra: Belice 1968, Irpinia 1980, Friuli 1976, L’Aquila 2009, Emilia Romagna 2012, Umbria e Marche 1997, Basilicata e Calabria 1998, oggi Italia centrale 2016.

Questo è un dato storico agghiacciante al quale si coniuga un altro terrificante connotato, forse, più distruttivo dello stesso terremoto: l’incapacità di gestire le emergenze con professionalità e prontezza degli interventi che era accettabile per gli episodi più lontani nel tempo, per ovvi motivi legati alle strutture inadeguate e agli enti preposti ancora impreparati a far fronte a simili eventi, sia con gli uomini e sia con i mezzi tecnici inadatti, non è più tollerabile nel 2016.

Questa capacità di affrontare nel modo giusto e nei tempi adeguati le grandi difficoltà che si presentano in queste calamità, è migliorata molto, pur se nella situazione in questione, sono giunti per primi i volontari e gli “sciacalli”, rispetto alle forze deputate all’uopo giunte, se non vado errato, dopo circa cinque sei ore…

Comunque sia, l’emergenza immediata è stata efficiente, considerando l’estensione e l’orografia dei luoghi.

Lo dimostrano le persone estratte dalle macerie, ancora vive e la logistica in generale.

Quello che m’impensierisce e deve preoccuparci è l’evolversi del dopo “emergenza”!

Il problema vero è non solo reperire le risorse ingenti necessarie per la ricostruzione delle zone distrutte, ma la capacità di governare la sua attuazione, visti i precedenti di molti dei terremoti citati, le cui comunità versano ancora in precarie condizioni di vivibilità umana e sociale.

Quando si scopre, in questo caso e in altri, che i soldi per l’attuazione delle modifiche antisismiche c’erano e sono rimasti inutilizzati e/o spesi malamente perché nessuno controllava i lavori, le qualità dei materiali e tutto ciò che inerisce ai lavori edili in siti a rischio sismico, c’è da nutrire più di un dubbio e ciò costituisce un altro terremoto, di cui non è colpevole la Natura, ma la natura umana degli amministratori pubblici a tutti i livelli, cui deve aggiungersi l’ignavia, quando non la corresponsabilità di ciò, grazie alla corruzione strisciante che s’insinua negli appalti pubblici, quindi, all’inquinamento e alla connivenza con imprese prive di scrupoli che usano più sabbia che cemento, sicure della mancanza dei controlli da parte dei tecnici preposti a questo.

Ora di fronte a tutto ciò, ci dobbiamo fare un grande esame di coscienza e pretendere che finalmente chi è deputato ad amministrare e favorire le iniziative a favore delle proprie comunità, si adoperi, finalmente, a svolgere il proprio lavoro con onestà, competenza e buona lena, senza rimanere impigliati nelle maglie di una burocrazia becera e ottusa, con i suoi regolamenti e protocolli creati nelle grigie stanze della cosiddetta “Pubblica amministrazione”.

Il governo, per il momento sbandiera i primi 50 milioni di € per le “prime” necessità; scopre, finalmente forse, che spendere per la prevenzione rappresenta un risparmio notevole,  non solo negli eventi sismici ma anche per quelli del territorio colpito dalle calamità “naturali” che, spesso, normali non sono, ma solo il frutto dell’incuria e d’inaccettabile indolenza e di assenza di responsabilità verso noi cittadini e verso la Nazione.

Le risorse da raccogliere per avviare dei programmi seri di consolidamento degli immobili, degli uffici pubblici, delle scuole, dei siti religiosi e archeologici ecc. saranno immani ma, a conti fatti con l’esperienza acquisita, sempre inferiori a quelle necessarie per ripristinare, ricostruire e… ridare fiducia e speranza alle comunità che hanno sempre contribuito, con le loro, spesso ingenti tassazioni, a finanziare una macchina statale, che quando, poi, dovrebbe ricambiare i cittadini per metterli in condizioni di riavere le loro case, le loro attività agricole, artigianali e industriali, le vite sociali, culturali delle loro comunità, va letteralmente in panne come una vecchia auto che ha percorso troppi chilometri (nel senso sbagliato però) e che non trova mai un meccanico in grado di rimetterla in cammino… senza più rompersi!

I soldi, se si ha la volontà politica e la capacità caratteriale di mantenere le numerose promesse e gli impegni, tanto sbandierati negli ultimi anni, si possono trovare, almeno in buona parte dall’attuazione di quella fantomatica e mai attuata (se non in piccola parte) della riduzione delle spese e degli sprechi pubblici!

Intanto, s’inizi ad abolire tutti i vitalizi non derivanti da contribuzioni effettuate; si diminuiscano gli stipendi dei boiardi pubblici e di alcuni dipendenti come gli addetti alla Camera e al Senato, (barbiere più di centomila euro l’anno, commessi intorno agli 8/10mila euro mensili); il segretario della camera che ha uno stipendio superiore a quello di Obama; alla Banca d’Italia; ai consiglieri regionali; agli Enti pubblici, la cui chiusura è sempre e solo stata annunciata; agli sprechi per le scorte inutili; alle manifestazioni inutili o meglio solo utili a fini elettoralistici e via dicendo!

In poche parole lo Stato (con la S maiuscola), si comporti finalmente come recita il codice civile, da buon padre di famiglia e non da dissennato dissipatore di risorse economiche e umane, affinché ci garantisca a tutti noi, fieri di essere Italiani, finalmente di sentirci “Cittadini” e non solo sudditi, tra l’altro pure compiacenti!

Non provi a ricorrere a operazioni subdole e addirittura a prelievi dalle pensioni o altre misure contro il buon senso, perché gli elettori alla fine ripagheranno i politici con aumentare la disaffezione verso “La casta”.

Lasci che gli italiani scelgano di propria volontà di dimostrare la generosità verso i loro connazionali così duramente colpiti, tramite i numerosi canali già aperti allo scopo.

Per quanto mi riguarda domani 29 agosto, disporrò un bonifico, per ora e poi vedremo se sarà ancora necessario, rimetterò mani al portafoglio.

Saranno delle gocce in un mare tempestoso, ma noi italiani siamo milioni e altrettante gocce possono anche fare un mare; se poi si uniranno anche le gocce dei privilegiati istituzionali, come sopra accennato, chissà che non ci sia un’inondazione… benefica, finalmente!

 

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THE FOLLO LINE PROJECT – TUNNEL TBM CONTRACT SIGNED

da Samsung S4 049

Ho il piacere di condividere con voi, oltre il mio giusto e motivato orgoglio in qualità di padre, la conclusione positiva di una trattativa, lunga e difficile, condotta in buona parte da mio figlio Massimo, con la “procura ad negotia” per l’aggiudicazione di un appalto nella città di Oslo del valore di oltre un miliardo di €.
Si tratta dell’opera edile ingegneristica più importante negli ultimi venti anni a livello europeo.
Detta opera sarà, quindi, in capo alla sua società Ghella spa e alla Acciona Infraestructuras S.A. società spagnola, già in joint venture per altri importanti lavori, ultimo dei quali, la tangenziale di Brisbane in Australia.

Si parla quindi, di contratti per lavori colossali d’ingegneria civile, per i quali l’Italia va giustamente fiera grazie alle sue note imprese del settore: Salini Impregilo, Astaldi, CMC, tanto per fare degli esempi e la Ghella spa, appunto.

Il mio intervento, però, non nasce solo dalla grande soddisfazione di vedere protagonista di un tale affare mio figlio, ma anche dal buon nome dell’Italia che ciò comporta.
Il tutto grazie all’abnegazione, alla preparazione e alle capacità individuali delle persone che ci lavorano.
Quest’operazione è il giusto coronamento di un impegno profuso da mio figlio, prima negli studi con la laurea in ingegneria edile, con tesi sulle gallerie, cui ha saputo ben coniugare il perfezionamento della lingua inglese, con alcuni soggiorni in Inghilterra, tra cui un esame con il progetto Erasmus a Edimburgo; a questo aggiungasi la sua scelta di apprendere durante il periodo universitario, anche la lingua spagnola presso l’Istituto Cervantes di Roma.
Tutte queste caratteristiche hanno agevolato il suo ingresso nel mondo del lavoro che è avvenuto a soli quattro mesi dopo il conseguimento della laurea.
Certamente non è stato facile, perché ciò ha comportato un periodo di lavoro e di formazione, abbastanza duro e non sempre in nazioni socialmente affidabili…
Sei anni in Venezuela, per la costruzione di una grande ferrovia in collaborazione con l’Astaldi e l’Impregilo; due anni per un acquedotto a Santo Domingo; altri due anni per una galleria per un gasdotto in Brasile.
Dopo tutto ciò è rientrato in Italia e la sua attività continua, con grandi soddisfazioni, come detto, riguardando progettualità tecnica e finanziaria e sopralluoghi in molte parti del pianeta dove la sua società è impegnata, in termini di fatturato, molto più che in Italia.

Questa mia personale disquisizione, è tesa anche a dimostrare come l’impegno individuale, la forza di volontà profusa e la capacità di amministrare e creare il proprio futuro, pagano sempre e non mi dispiace erigere ad esempio per i giovani che, spesso, cercano lavoro, con superficialità e faciloneria, questo di mio figlio che si è proposto da solo, con le sue qualità tecniche e linguistiche acquisite con pervicacia e coerenza.
Nelle foto della firma degli atti formali, mio figlio è il primo a destra e… consentitemi che una lacrima mi scivoli sulla guancia.

Faccio seguito a questa pagina del 26 marzo, per comunicare che tra poco inizieranno i grandi lavori degli scavi sotto la città di Oslo, i lavori preparatori del cantiere, iniziati già da tempo sono a buon punto.

Ieri 8 giugno, mio figlio proveniente da Oslo si è recato in Germania insieme ad alcuni colleghi a verificare il termine dei lavori dell’assemblaggio dell’ultima delle quattro TBM che dovranno scavare altrettante gallerie, di cui al contratto citato. Le prime sono in corso di trasporto verso Oslo e tra alcuni mesi saranno tutte operative.

Per questo motivo allegherò alcune foto tratte dal sito del costruttore, della TBM, la cui imponenza e complessità si evince dal solo guardare le foto, per non parlare, poi, del costo di ognuna di esse che, ammonta a 20 milioni di €, per un totale, quindi di 80 milioni!

Questa è una  foto di mio figlio, da solo, davanti al rotore di testa della macchina, del diametro di 10 metri; una curiosità è rappresentata dal fatto che ognuno delle quattro TBM ha la “mola” con la quale scavare le gallerie, di un colore diverso.

Oltre alla grandezza della parte perforante c’è da aggiungere che questi macchinari, dalla grande complessità tecnica, sono lunghi 120 metri!

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Mio figlio è il primo a sinistra.

Mi preme rimarcare che la società Ghella è un’impresa eccellente e ben nota in tutto il mondo, nonostante sia ancora a carattere “familiare” e dà lustro al nostro paese: in tempi recenti il presidente Renzi accompagnato dall’ing. Ghella, ha visitato i cantieri di un tratto della Salerno Reggio Calabria, quasi completati, un record per questa opera, il cui cantiere è aperto da decenni e ancora non chiuso; altro cantiere visitato da entrambi è quello delle metropolitane di Buenos Aires. Questo per limitarmi solo ad alcuni dei lavori in corso di cui è stata data ampia notizia sui giornali e dalle televisioni, per quanto riguarda gli altri cantieri, credo che basti visitare il sito della Ghella spa, per farsi un’idea più approfondita della qualità e capacità della società.

Abbiate comprensione per quest’altra manifestazione di orgoglio paterno, che mio figlio merita!

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Sei anni fa, fui contattato da uno studente di Bologna che stava preparando la tesi di laurea sul maestro Alberto Manzi, nelle sue ricerche si era imbattuto nel mio racconto sul maestro e mi chiese di partecipargli la mia esperienza con lui, con alcune notizie e gli inviai anche i miei quaderni dell’epoca con le correzioni ed i voti del maestro.

Quando stava per concludere la tesi chiese, alle persone da lui intervistate che erano state suoi allievi, in anni più recenti dei miei, di esprimere un pensiero in memoria del loro maestro, da inserire nel corpo della tesi; tale invito fu fatto anche nei miei confronti ed io accettai con grande piacere scrivendo una lettera virtuale al maestro Manzi che di seguito pubblico volentieri, per condividere con chi avrà la compiacenza di leggerla le emozioni già da me narrate nel racconto: Il Maestro Manzi, presente in questo blog.

 

Villa Adriana 4 ottobre 2011

Caro Alberto (permettimi questa confidenza per l’età raggiunta) sono Sergio Maffucci, un tuo alunno della prima e seconda classe elementare degli anni scolastici 49/50 e 50/51 nell’Istituto F.lli Bandiera.

Successivamente ho cambiato casa e, di conseguenza, scuola, ma siamo rimasti per molti anni in contatto epistolare, tramite mia madre, scambiandoci cartoline d’auguri in occasione delle feste comandate.

Io conservo pochissimi ricordi dei miei anni passati, sia giovanili, sia adulti, è un fatto notorio, quindi, la tua memoria, pur se circoscritta ad uno dei tuoi geniali espedienti didattici, che ti hanno reso, giustamente, famoso, è rimasta impressa sull’emulsione della mia anima è il più bel complimento che possa farti; la tua “maestria” è stata tale da rimanere inalterata nella mia scarsa memoria, nonostante i sessanta anni, ahimè, trascorsi!

Credo che per una Maestro come te, questa rappresenti la più grande soddisfazione: la prova della tua capacità di comunicare e di creare quella comunione indispensabile perché il rapporto docente discente sia veramente proficuo.

Spero che, dove e quando non so, ci si possa rincontrare e mi piace immaginare, con una poetica visione, che tu stia svolgendo ancora il tuo compito con quei bambini che non sono riusciti a diventare adulti.

Un affettuoso saluto ed un ringraziamento per averti conosciuto ed un rimpianto per non aver frequentato tutte le cinque classi elementari con te.

                                                                                           Sergio

 

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Pensieri dedicati a chi sa solo lamentarsi di tutto e tutti senza, poi, essere capace d’impegnarsi in prima persona! (ancora attuali!)

Se c’è una cosa di cui non ci sia bisogno è quella degli appelli del genere: inutili, ideologicizzati e inconcludenti, che rappresentano la certificazione della pochezza e dell’insipienza di chi, grazie al nostro voto, ci dovrebbe rappresentare e governare.

Richiami del genere non hanno mai portato a nessun risultato se non quello di alimentare un clima di disfattismo e di sconforto che amplifica la già grave situazione.
Sappiamo tutti ed anche chi detiene le deleghe del potere chi sono i delinquenti e come si potrebbero combattere, però nessuno ha il coraggio di dire che se non c’è la volontà politica e la ferma risoluzione di fare le giuste mosse senza che monti il solito coro delle critiche ipocrite, non si risolverà mai niente.
Ad avercene anche noi persone come Reagan e la Tatcher, con gli attributi e i poteri connessi, non saremmo in queste condizioni.

Poi lasciate perdere il muro di Berlino, perché siete proprio fuori tema: dietro il muro c’erano i compagni del sol dell’avvenire che hanno rovinato prima loro stessi e poi anche i paesi in cui hanno fatto proseliti di cui, lo vogliate o no, quelli del Pd sono i residui(spesso non pentiti o ravveduti come il nostro Presidente) di quella cultura politica che tanti guasti ha causato ed ancora produce laddove c’è ancora qualcuno che crede nel Comunismo…
Ognuno di noi sia Cittadino onesto e dotato di senso civico: solo questo basterebbe a raddrizzare la baracca, ma… “teniamo famiglia!”

Allora scendete sulla terra e siate pragmatici, coerenti e comportatevi di conseguenza, senza velleità, illusioni, utopie e religioni varie, se potete.
Sennò meglio tacere e fare almeno il minimo indispensabile, come assumervi le vostre responsabilità e fare politica in prima persona!

Con questo messaggio privato, che non appare sul profilo dell’associazione dei pensionati, perché non è il caso di farlo, le replico e chiudo qui la discussione provocata dal suo intervento nella pagina della comunità anzidetta.

La cosa resta, così, fra lei e me, come doveva essere, senza che si lamentasse con i componenti della stessa: azione anch’essa inutile e priva di senso.

Tragga le conclusioni che vuole ma le dico subito che di scontri del genere negli ultimi anni nel web ne ho avuti tanti sia di ordine letterario, sia di ordine “politico”. La mia vis polemica difficilmente morde il freno dinnanzi a situazioni della specie in cui si vuol dare per scontato il proprio pensiero in maniera supponente e spocchiosa, ergendosi a depositari di chissà quali verità e di una superiorità morale ed intellettuale infusa come lo “Spirito Santo” di evangelica memoria.
Se lei ha intenzione di continuare a battere questa strada io non mi tirerò indietro e ribatterò colpo su colpo, sempre nell’ambito di un confronto civile e soprattutto con onestà intellettuale.
Faccia lei.
__________________________________________________

Segue…

Come volevasi dimostrare, signora, lei ha licenziato un comunicato roboante e di grande qualità politica, pieno di luoghi comuni e di ovvietà che già suonavano false negli anni cosiddetti di piombo.
Molto illuminante poi, l’affermazione: “Penso sia valido per tutti i colleghi”. Ciò fa comprendere la presunzione e la scarsa considerazione sulle capacità raziocinanti dei “colleghi”! Non mi ero accorto che la nostra fosse l’associazione nazionale pensionati del PD! (ex PCI…)

Una voce dissonante dal vostro pensiero unico e incontestabile vi ha controbattuto e guarda caso è risultato che il giorno dopo di esso era già vuoto di significato, perché la strage di Brindisi, quasi sicuramente non ha nessuna delle matrici da voi elencate, in base alle quali il vostro proclama dava delle precise indicazioni (inutili nella sostanza, se dopo oltre 40 anni stiamo ancora a dire le stesse cose).
Tanta era la frenesia di collocare l’evento delittuoso in un contesto che giovasse al vostro sentire che non avete avuto nemmeno l’accortezza di aspettare gli esiti delle prime indagini.
Mi permetta, inoltre, di dirle che il richiamo al fascismo: qui non si fa politica (?), lanciato dagli epigoni di uno dei più aberranti regimi politici, assimilabile, per le costrizioni delle libertà, per gli assassini politici e per le morti civili provocate dagli scellerati piani quinquennali dell’URSS, al nefando regime nazista, è, a dir poco, esilarante.

Inoltre, l’associazione è una libera unione di persone di ogni estrazione sociale culturale e di conseguenza anche politica, formata da persone che hanno lavorato nello stesso istituto e non degli iscritti ad un circolo PD come il suo, quindi il richiamo a lasciar fuori la politica, almeno a livello dell’associazione è quanto mai giusto e pertinente.

Se lei non riesce a comprendere anche questo, bene, ci lasci pure e continui a condividere con i suoi sodali le sue idee; sappia però che la libertà di pensiero e lo spirito critico sono il sale della libertà e laddove si è tutti omologati non c’è libertà e soprattutto non si è abituati ad essere criticati o contraddetti.
Questo è molto più grave di tutti i vostri proclami e nemmeno l’età le ha ancora portato il discernimento necessario per distinguere ed analizzare le idee, nonché il motore della conoscenza che è il DUBBIO che ognuno dovrebbe nutrire di fronte a qualsiasi manifestazione del pensiero, prima di farlo proprio, non senza essere sempre pronto a ricredersi, se non vada proprio così.

Forse sarebbe meglio che si cancellasse dal circolo PD, dove non c’è sicuramente libertà in senso lato ma solo un monotono e noioso appiattimento su posizioni condivise che rende inutile il dialogo ed il confronto… ed il divertimento, ovviamente.
Contenta lei…

Ecco la sua risposta!

Lei non merita risposte!”

Come prevedevo, quando non si sa accettare il confronto ed il dialogo e non si hanno gli strumenti cognitivi adatti, tutto si liquida con una battuta.
Dovrebbe ringraziarmi invece, perché le ho aperto uno spiraglio nella sua mente, scoprendo una voce che dissente dalle sue vacue ed inutili affermazioni che non è stata in grado di dimostrare essere, invece, con logica convincente, esatte.

Per ultimo lei ha anche commesso un grave errore comportamentale, non informando l’associazione su quanto si apprestava a fare e non facendosi scrupoli se il suo intervento sarebbe stato corretto o meno in quel contesto!
Il trionfo, quindi, dell’arroganza e della supponenza che ha dimostrato anche con la sua teatrale battuta.

Scenda dal piedistallo e si doti di un po’ di onestà intellettuale che non le guasterebbe… (non è mai troppo tardi…).

Come vede, lei invece le merita e come , le risposte!

 

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Rileggendo alcuni scritti sparsi fra i miei “files” mi permetto di pubblicarne alcuni di essi, come ho fatto ieri con il titolo Amore e oggi, 23 maggio 2016, le mie considerazioni in seguito all’attentato dei nostri militari in Iran.  In questo brano riporto fatti e pensieri che sono attuali anche oggi, grazie alla “scoperta” della Fallaci da parte mia.
Otto anni fa, a distanza di pochi giorni dal più grave atto di terrorismo perpetrato a danno di migliaia d’innocenti ed al solo scopo di dimostrare, come l’organizzazione di Bin Laden, poteva colpire il cuore degli Stati Uniti d’America, il Corriere della Sera, sabato 29 settembre 2001, pubblicava lo scritto di Oriana Fallaci: ”La rabbia e l’orgoglio”.

La presentazione di Ferruccio de Bortoli dello scritto suddetto, annunciava l’eccezionalità dell’evento che “rompeva” un silenzio decennale, ma l’evento apocalittico avvenuto a poca distanza dalla sua casa di Manhattan, sconvolse, ovviamente, anche il suo romitaggio. Il direttore del Corsera la sollecitò vivamente, nei giorni immediatamente successivi alla strage, perché scrivesse qualcosa su quello che aveva visto e vissuto in prima persona.
“Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima.” Aveva scritto anni prima e quest’affermazione era ancora vera.

Oriana consegnò al direttore un pezzo forte, dirompente, denso di pensieri e ragionamenti sull’America, sull’Italia e sul mondo islamico, realtà a lei ben note per averle conosciute direttamente sul campo, senza tema per la propria incolumità e la propria indipendenza di giudizio. Pensieri che le uscivano “dal cervello attraverso il cuore”.

“Qualcuno queste cose le doveva dire. Le ho dette.”

De Bortoli concludeva che: “Farà discutere. Eccome”

Così fu, infatti.

Al brano pubblicato, seguì un libro dallo stesso titolo poi “La forza della ragione”.

Fino a quel giorno non avevo letto nulla della scrittrice Oriana, perché lei era ascritta al gruppo d’intellettuali e scrittori che faceva capo alla “sinistra”, per il suo giovanile impegno nella resistenza e per le sue prese di posizione contro i regimi dittatoriali del Portogallo e della Grecia. Non avevo compreso che lei, però, non era omologata a quel tipo di cultura, ma era uno spirito libero che ragionava con la sua testa e dotata di un’intelligenza e di una razionalità per nulla subornate da nessuna ideologia, in poche parole: una donna libera nel senso letterale della parola e da buona toscana, quello che c’era da dire, lo diceva, senza preoccuparsi di nulla.

Per questo motivo mi accostai allo scritto pubblicato dal Corsera, con una certa diffidenza nell’errato convincimento di trovare nelle sue frasi delle posizioni da me non condivisibili.
Iniziai a leggere il pezzo e nonostante il brano fosse scritto in caratteri piccoli ed occupasse quattro pagine del giornale, lo lessi con un interesse crescente, cui s’aggiunse un’emozione profonda che, giunto alla fine, mi lasciò confuso stordito e commosso. Il solo ricordarlo mi procura un brivido.

Avevo appena letto un brano in cui la logica, la razionalità e l’intelligenza dell’autrice avevano disegnato uno scenario sul quale mi sentii totalmente all’unisono, non trovando una virgola fuori posto da quella che era una denuncia lucida e circostanziata della situazione del mondo soggetto ai gruppi di fanatici religiosi islamici.

La sua battaglia è continuata per altri anni finché “l’alieno”, come lei definiva il tumore che si era intrufolato nel suo corpo, non ebbe ragione di lei.

Una delle cose che più mi disgustò, in quel periodo fu che alcuni individui, fra cui cito la Guzzanti e il “premio Nobel” Fo, fecero più volte dell’ironia, anche volgare, su di lei e la sua malattia, arrivando persino a dichiarare che fosse tutta una montatura per fare effetto sulla pubblica opinione!

Questa lunga premessa serve ad introdurre l’argomento principale che mi prefiggo con questa nota: alcune considerazioni sugli avvenimenti afgani.

L’impegno “occidentale” in quel paese, definito di “pace” e finalizzato a favorire la ricostruzione di uno Stato degno di questo nome, con le istituzioni idonee e funzionanti, dopo decenni di guerre che hanno lasciato il paese in una situazione di caos totale, cui partecipiamo con lo zelo e l’umanità che ci contraddistingue, si sta rivelando sempre più inadatto alla situazione effettiva sul campo.

Se la Fallaci fosse ancora con noi, avrebbe già da tempo criticato questo tipo d’intervento, che pur di ottenere l’egida dell’ONU e delle altre istituzioni internazionali, è stato sottoposto a tanti compromessi che ipocritamente aggirano e sottovalutano la vera condizione del paese!

Chiamare una missione di pace l’intervento dei soldati, quando sul terreno esistono ancora truppe irregolari di “insorgenti” (come sono delicatamente chiamati ora i Talebani) che dispongono di armi e munizioni a profusione e che usano strategie inusuali, dai Kamikaze all’assoluto disprezzo della vita in generale, non facendo distinzioni, nelle loro azioni, se le vittime siano solo militari o anche e soprattutto loro connazionali, bambini compresi.
Le regole d’ingaggio stabilite dai paesi partecipanti alla missione si sono rivelate un grande ostacolo all’espletamento della missione, cosiddetta di pace, ed al raggiungimento dei suoi obiettivi, perché solo sotto un attacco armato diretto, i militari possono reagire per difendersi, ma non devono andare oltre come perseguire i responsabili e catturarli.
Di fronte a questo tipo di nemico non ci sono molte possibilità di fare ciò che la missione si proponeva e, soprattutto, non si risolve la situazione alla radice che sarebbe quella di estirpare la mala pianta degli “insorgenti”. Liberando la popolazione dal loro ricatto e dai loro soprusi, si restituisce la dignità ad un popolo che la merita come qualsiasi altro, liberandoli anche dalla pratica di coltivare il papavero da oppio che, è spesso, l’unica fonte di reddito di molti afgani e il sistema per autofinanziarsi degli “insorgenti” per continuare nei loro folli progetti terroristici, in nome di una guerra santa che non ha nessuna giustificazione religiosa e politica, oltre che morale.

I nostri ragazzi che operano in quel territorio, con abnegazione sacrificio e senso del dovere, lo fanno con il fianco scoperto, perché mentre i talebani combattono con ogni mezzo, i nostri militari devono solo porre in atto espedienti elusivi ed inutili e non possono anch’essi lottare, perché non si ha il coraggio di andare fino in fondo come si dovrebbe, con il risultato che si muore senza che la situazione cambi effettivamente nella sostanza.
A questo aggiungasi che in patria c’è qualcuno, come Saviano, che usa parole per svilire le loro figure e il loro impegno. I nostri soldati (mercenari per qualcuno), però, a differenza del sopravvalutato scrittore, rischiano la pelle in prima persona e non hanno le scorte personali (che in Afghanistan non servirebbero a nulla).

In questa situazione che accomuna tutte le forze internazionali, l’unico risultato che si raggiungerà è quello d’impantanarsi in un conflitto senza fine, come accadde ai russi. Si abbia il coraggio politico di fare veramente una guerra bilaterale, ripulendo la zona ed il Pakistan dagli “insorgenti”, restituendo agli afgani il controllo del loro paese. Ci saranno ancora morti e si spenderanno tanti soldi, ma se si riuscisse nell’intento quanti se ne eviteranno quando i terroristi non avranno più le loro basi, i soldi e gli appoggi e probabilmente non potranno più progettare e realizzare attentati in qualsiasi parte del mondo, tipo Madrid, Londra e via dicendo.

Se si vuole veramente rendere l’onore che meritano questi nostri fratelli, se si deve pagare un tributo di sangue, che almeno sia per estirpare questi “alieni” non appartenenti alla specie umana, non condividendone alcun valore fondamentale, solo allora questo impegno e questi sacrifici saranno veramente utili a tutti noi!

A questo voglio aggiungere di stare attenti a casa nostra perché come diceva la Fallaci:
”Continua la fandonia dell’Islam “moderato”, la commedia della tolleranza, la bugia dell’integrazione.”

Voglio finire onorando i sei uomini periti nell’attentato di Kabul e augurarmi che un giorno si possa dire che sono morti per una giusta causa, estirpando il fanatismo religioso, che è il nazifascismo del terzo millennio, prima che possa causare danni irreparabili, per consentire agli uomini di buona volontà e buon senso e non soggiogati da nessuna religione e/o ideologia, di vivere in tranquillità e in sicurezza.

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Email inviata al dottor Paolo Conti del Corriere della Sera sul tema di un suo articolo, del 28 agosto 2012.

Mi riferisco al suo articolo: “AMORE” ed ai vari collegamenti relativi ai commenti dell’articolo del 20 agosto, da cui lei ha preso spunto per rispondere e manifestare la sua opinione in merito, per intervenire a mia volta senza, però, alcuna divagazione moralistica.

Vorrei ricondurre il tema su un piano strettamente umano, personale, senza cercare d’ingabbiarlo in un discorso pseudoscientifico psicologico, sull’età per amare!

Qualche anno fa ho scritto un libro che, traendo lo spunto da un sogno, narra o cerca di raccontare una storia d’amore in età “grigia”, alla soglia della pensione. Terminato il libro, ho avuto modo di scoprire, leggendo sui giornali, che detto fenomeno era già in atto negli Stati Uniti da diversi anni e che esso, si stava verificando anche nella vecchia Europa.

Avevo, quindi, trattato un argomento di carattere sociologico che si stava diffondendo anche da noi, senza saperlo.

In questa storia ed in quelle analoghe, ci sono insieme due fattori trattati negli articoli summenzionati: quello dell’innamoramento intorno ai sessanta anni e quello della frattura esistenziale, lavoro/pensione, che spesso inducono a cambiar radicalmente, sia il proprio modo di vivere, sia a sostituire l’oggetto della propria affettività, con una carica vitale che si credeva, ormai, persa per sempre o, almeno, non più possibile.

Non mi dilungo oltre dicendole, se del caso, che le potrei inviare una copia del mio “libro”, da poco ristampato per mia volontà, non certo per un successo editoriale, anche se molti amici e non, bontà loro, l’hanno apprezzato ed in un concorso letterario di un’associazione culturale napoletana ha ricevuto il secondo premio, nella categoria dei libri editi.

La saluto cordialmente e la ringrazio per l’attenzione, non trascurando di mettere in risalto che seguo da sempre il Corsera, cui sono legato anche sentimentalmente dal ricordo di mio zio, fratello di mia madre, che ha terminato la sua lunga carriera giornalistica tra le vostre fila.

                Sergio Maffucci

 

Sergio998@hotmail.com

 

www.sergiomaffucci.com

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   azione culturale Emily Dickinson.

    • Una farfalla che non riuscì a volare: primo classificato nelle opere edite nel concorso Opera Uno 2014.
    • La collezionista di… :Terzo premio, sezione editi Associazione culturale Emily (AR) per le poesie, giugno 2014.
      • Diploma di merito e medaglia per la silloge di poesie “Barlumi di sensazioni” nella VIII edizione del premio Albero Andronico aprile 2015.
      • Ottavo classificato sezione poesia, Presa di coscienza premio Nicola Martucci XIII edizione – Valenzano giugno 2015.
      • Segnalazione particolare della giuria del 41° premio letterario Casentino a Poppi (AR), per la poesia: “Rimembranze”, 11 giugno 2016.

       

      • RACCONTI:
      • Diploma di merito per il racconto “IL Murenaio” V edizione, sezione racconti inediti del premio Albero Andronico 2012.
      • Terzo premio per il racconto “Il tramonto di una vita” Premio letterario associazione San Benedetto del Tronto nel cuore VI edizione maggio 2013.
      • Conferimento speciale nel concorso letterario “Idea Donna” novembre 2013.
      • Dip   LIBRI:
        • Accadde un giorno: secondo premio nella sezione libri editi da parte dell’associazione culturale Emily Dickinsono di Napoli XIV edizione 2011.
        • La Scuola di Napoli: terzo premio sezione libri editi XVI edizione del 2013,
        • associ

      Dickinson 21 gennaio 2016

    • POESIE:
    • secondo premio per la silloge “Disarticolati pensieri” dall’associazione Emily Dickinson di Napoli XVII edizione 2014 e diploma di merito nel concorso Albero Andronico Roma VI edizione marzo 2015.
    • Segnalazione particolare della giuria del XXXIX premio letterario Casentino, Poppi

    loma di merito per il racconto “Una sera a Venezia tra realtà e sogno”, VII edizione del premio Albero Andronico marzo 2014.

  • Segnalazione per “L’isola delle sirene” nella XVI edizione del premio “Il litorale” di Massa, maggio 2014.
  • Secondo classificato il racconto “Il suo nome era Andrea” associazione culturale “S.Benedetto del Tronto nel cuore” maggio 2014.
  • Premio del presidente, settembre 2014 nella XV edizione del premio letterario di narrativa e poesia, “Tra le parole e l’infinito” Santa Maria Capua Vetere dove ho inviato un racconto ed un libro.
  • Secondo premio per il racconto “Il professor Angelo De Majo” dell’associazione culturale “Emily Dickinson”, Napoli 15 gennaio 2015.
  • Menzione d’onore per il racconto “Il tramonto di una vita” concorso “Nicola Martucci” Valenzano 2014, classificato al terzo posto nell’edizione del premio giugno 2015.
  • Segnalazione particolare della giuria del XXXIX premio letterario Casentino, Poppi (AR) per la narrativa breve, giugno 2014.
  • Segnalazione particolare della giuria per il racconto “la donazione degli organi” nella 40° edizione del premio letterario Casentino, maggio 2015.
  • Menzione d’onore con medaglia nel premio letterario internazionale S. Margherita ligure Franco Delpino ottobre 2015 per un racconto inedito “Il tramonto di una vita”.
  • Diploma di merito per il racconto “Il professor Angelo De Majo” Concorso Albero Andronico, 25 marzo 2016 Roma.
  • Riconoscimento speciale per la narrativa dal premio San benedetto del Tronto nel cuore IX edizione – anticipazione inviata per mail, della premiazione del sette maggio 2016.
  • Segnalazione particolare della giuria del 41° premio letterario Casentino, per tre racconti inediti: “Il tramonto di una vita, Il suo nome era Andrea e L’ultima ninna nanna. Poppi (AR) 11 giugno 2016
  • Terzo premio per tre racconti nella sezione narrativa per ragazzi: due fiabe “moderne” e Un racconto di Natale. Poppi 11 giugno 2016.
  • 7° premio della Presidenza nella 17a edizione del premio letterario internazionale di narrativa edita ed inedita “Tra le parole e l’infinito”, per il racconto “Il Murenaio” Caivano (NA) 25 giugno 2016
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Foto premiazioni

Immagini disponibili

img_0182Premio letterario Montefiore VI edizione  25 settembre 2016. Libro edito:   “La collezionista di… “

 

 

Terzo premio per il libro “La collezionista di… ” Associazione culturale “Emily Dickinson” Napoli 21 gennaio 2016
IMG_0103Diploma di merito e medaglia dell’associazione culturale “Albero Andronico” per il racconto “Il professor Angelo De Majo”

Roma, Campidoglio sala della Protomoteca 25 marzo 2016 Andronico 2 png IdemAndronico 1

 

Diploma di merito e medaglia per la silloge di poesie ” Barlumi di sensazioni”

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Premio nazionale di letteratura e teatro “Nicola Martucci” Città di Valenzano XIII edizione 2015

Riconoscimento per il racconto “Il tramonto di una vita” e per la poesia “Presa di coscienza”

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XXXVIII Premio letterario Santa Margherita Ligure – Franco Delpino 25 ottobre 2015

Menzione d’onore per la narrativa

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Attestazione dell’accademia San Giorgio – Anpai S. Margherita ligure 27 giugno 2015

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Secondo premio per il racconto “Il professor Angelo De Majo” per la sezione racconti inediti, riconosciutomi dall’associazione culturale Emily Dickinson di Napoli, alla presenza del sindaco De Magistris.  Gennaio 2015

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IL GIUBILEO DEL 1500 INDETTO DAL PAPA ALESSANDRO VI BORGIA

Papa Alessandro VI Borgia

                                               Papa Alessandro VI Borgia

 

Questo evento importante della chiesa cattolica Romana non ha una precisa origine, anche se nell’alto medioevo, alcune testimonianze frammentarie, fanno riferimento alla tradizione ebraica che ogni cinquanta anni ne imponeva uno di riposo, per i terreni coltivati e le iniziative correlate, come la restituzione delle terre confiscate, la liberazione degli schiavi e altro ancora.

Di ciò non erano informati né i papi dell’epoca né i prelati in genere.

La gerarchia cattolica cominciò a prendere in considerazione l’idea del Giubileo, dopo la cosiddetta Perdonanza del Papa Celestino V, che nell’anno milleduecentonovantaquattro, emise la Bolla del Perdono che consentiva a tutti coloro che sarebbero andati nella chiesa di S. Maria di Collemaggio, nella città di Aquila, di ricevere, se confessati e pentiti, l’indulgenza plenaria.

Fu così che nel milleduecentonovantanove, alcune vaghe notizie riferiscono di un’indulgenza plenaria per il capodanno del nuovo secolo, che si sarebbe ottenuta per il solo fatto di entrare nella basilica di San Pietro.

Bonifacio VIII mutuò il gesto di Celestino V e indisse il primo Giubileo ufficiale della storia della chiesa, con la clausola di dover visitare trenta volte le basiliche romane, se abitanti a Roma e quindici volte se stranieri: le basiliche erano quelle di S. Pietro e di S. Paolo.

Da allora il rito ha rispettato la cadenza cinquantennale della storia ebraica, trasformata in venticinquennale dal Papa Paolo II nel millequattrocentosettantacinque; intervallo valido ancora oggi, con l’eccezione di pochi casi, in cui furono proclamati dei giubilei straordinari, come, ad esempio, quello attuale di Papa Francesco.

Dal Medioevo in poi questi eventi hanno sempre indotto centinaia di migliaia di credenti a compiere il pellegrinaggio a Roma.

Nei primi giubilei della storia, sono persuaso che le motivazioni religiose erano preponderanti e i pellegrini erano compresi del contenuto mistico della ricorrenza.

Va da sé che anche nei secoli scorsi, tale ingente massa di devoti che si procurava l’indulgenza plenaria, dava anche un notevole contributo alla chiesa romana ed alla sua economia. Con il trascorrere degli anni, questa seconda opzione divenne sempre più preponderante, non dimentichiamoci che una delle tesi di Martin Lutero era proprio la contestazione del mercimonio delle indulgenze e tutto ciò che ruotava intorno ad esse!

Sappiamo tutti come poi è andata a finire…

A tale proposito, possiamo citare uno dei tanti episodi legati ai giubilei, in particolare quello del millecinquecento, grazie al rinvenimento, in un archivio storico del vescovado di Vico Equense, di un manoscritto in cui si descrive, per sommi capi, il viaggio compiuto da alcuni personaggi, religiosi e civili di questa cittadina, sita nella penisola sorrentina.

Da questo resoconto abbiamo preso lo spunto per redigere un racconto abbastanza verosimile alla realtà del tempo.

È il pomeriggio del venticinque aprile del millecinquecento, giorno in cui si festeggia San Marco evangelista.

Nella spiaggia della marina di Vico Equense si sono radunati: il notaio Reginabile Palascandolo con il figlio Alessandro, il suo padrino Masello Zoccula, primicerio del capitolo, il frate domenicano Mariano Masturzzo, cappellano della chiesa di Santa Maria della Pace, (oggi identificabile con la cappella dell’arciconfraternita dell’Assunta, in via monsignor Michele Natale, nel trecentesco centro storico del Vescovado), cui si aggiunsero altri due importanti concittadini: Francesco Gattola e Bernardino Bozzaotra.

Tutti erano nell’attesa che lo “Schifo” (una piccola barca di servizio sui mercantili), fosse armata e preparata al “viaggio”.

L’equipaggio era composto dal padrone della barca Consalvo Balsamo e da quattro esperti marinai di Vico Equense.

Si apprestavano a salire sull’imbarcazione, con trepidazione ma, anche contenti d’intraprendere questo viaggio verso Roma per il giubileo dell’anno millecinquecento, indetto dal papa Catalano della famiglia dei Borgia, Alessandro VI.

Una volta a bordo, ognuno di loro occupò il posto assegnatogli dal comandante, i marinai, issarono le vele che un leggero vento gonfiò subito, ma giungeranno a Napoli, solo il mattino della domenica.

Un po’ intorpiditi dalla traversata del golfo che non è stata confortevole, riuscendo a dormire solo a tratti, scesero dalla barca e si diressero verso la chiesa di S. Pietro martire, per assistere alla santa messa domenicale.

Nella stessa giornata, poi, ripresero il viaggio per fermarsi poco dopo capo Miseno, nella zona chiamata mare morto, perché, di solito, al riparo dai venti.

Per tutta la sera non fecero altro che pescare, forse per prepararsi la cena sulla barca, non certo per portare i pesci fino a Roma!

Il ventisette aprile, ripresero il mare ed ebbero qualche difficoltà perché il tempo stava mutando e con esso anche il mare si stava agitando. Tra sballottamenti e qualche scroscio di acqua salata riuscirono a giungere nel porto di Gaeta, dove rimasero per ben tre giorni aspettando che la burrasca si placasse.

Forse avranno consumato i pesci pescati anche nella locanda dove si saranno sistemati,per poi dormire un po’ più decentemente e senza ondeggiamenti.

La compagnia, comunque era piacevole, tutti si conoscevano da qualche tempo e quindi, non avevano problemi di socializzazione.

Davanti al tavolo della locanda, dove i residui della cena appena mangiata, si alternavano ad alcune bottiglie di vino, ormai vuote, iniziarono a scambiarsi le proprie opinioni sul viaggio intrapreso e sul giubileo che li attendeva a Roma.

Il notaio Palascandolo esordisce:

“Amici, come e cosa vi aspettate dalla città di Roma e da questo Giubileo?”

“Cosa ci dobbiamo attendere… che i nostri peccati siano rimessi e che le nostre anime ritornino alla purezza natale, dicono entrambi i religiosi della comitiva.”

“Bella risposta padri, anche se mi sembra strano che due anime sante come voi possano avere dei peccati da mondare…” Replica sornione Francesco Gattola.

“C’è sempre qualche peccato, seppur veniale, anche tra noi preti.”

“Figuriamoci allora fra noi laici, vero Palascandolo?” afferma Bernardino Bozzaotra.

“Tu che ne pensi?”

“Hanno ragione loro siamo tutti peccatori e noi laici, attaccati alle cose terrene lo siamo ben più di loro!”

“Beh, senza essere blasfemo o irriverente, credo che a Roma e intendo nel papato e nella curia, almeno stando alle voci che giungono anche fino al nostro piccolo paese, di giubilei non ne basterebbe uno solo!” dice Palascandolo con un malcelato compiacimento per aver stuzzicato e provocato i due sacerdoti.

“Su questo sono d’accordo con te, gli replica il Gattola!”

Non c’è noto sapere se qualcuno dei “pellegrini” fosse stato già nella città di Roma.

Probabilmente i due canonici sì, per gli altri, forse era la prima esperienza nella capitale della cristianità.

Alessandro VI “regnava”, è proprio il caso di dire, da sei anni.

Nel millequattrocentonovantadue successe a Papa Innocenzo VII di cui fu uno stretto e fedele collaboratore, nonché ascoltato consigliere.

La sua elezione fu veloce, avendo avuto il consenso di tutti i cardinali elettori, tranne quello di Della Rovere acerrimo nemico della casata Borgia.

Dopo l’elezione fu munifico nei confronti di tutti i suoi elettori, distribuendo regali e prebende a piene mani, nonché incarichi di prestigio nella Curia.

Papa Borgia era il più ricco dei cardinali e la sua incoronazione fu fastosa e solenne. Gli piaceva strabiliare i suoi sudditi e la manifestazione del lusso e dell’esteriorità derivavano dalla sua origine spagnola, anche se la sua famiglia non era di gran nobiltà e non aveva molte risorse economiche.

Il suo successo culminato con l’elezione al soglio pontificio fu la coronazione di un percorso dovuto alle sue indubbie qualità intellettuali, grandi come lo erano anche i suoi difetti.

Non era certo un teologo ma un papa re e non aveva una vita moralmente irreprensibile. Già quando giunse a Roma, aveva due figli di madri sconosciute. Cardinale a venticinque anni, divenne prete a trentasette.

Fu sedotto dalla bellezza di Vannozza de’ Cattanei, da cui ebbe quattro figli: Giovanni, Cesare, Lucrezia e Giuffredo.

Quando divenne Papa aveva oltre sessanta anni, ma le su facoltà mentali erano intatte. Iniziò a distribuire cariche ed onori a quasi tutti i membri della sua famiglia, con una pratica nepotistica sfacciata.

Riuscì, però, a rimettere in sesto le finanze, a contenere le lotte fra le famiglie nobili romane che da troppo tempo si susseguivano senza che il potere del papato riuscisse a controllarle.

Combatté la corruzione e la simonia del clero, sfoltì la classe burocratica, ridusse i salari, mise un limite alle spese, aumentò le tasse e impose a tutti, lui compreso, un regime di austerità.

Per quanto riguarda l’urbe, in essa regnava una completa anarchia; i nobili aizzavano il popolo contro i propri rivali e contro il Papa.

La sicurezza pubblica era inesistente, tant’è che aumentò il numero degli sbirri: la quantità dei delitti, dei furti, delle rapine e delle violenze era ingente.

Per dare un monito ed un freno a tale andazzo, non mancò di mandare a morte degli omicidi lasciandoli penzolare più giorni dalle forche istituite nelle piazze.

Analogo impegno mise nel recuperare la dignità e l’integrità dello Stato Pontificio, contrastando i despoti e ricacciando le potenze straniere che erano entrate nei confini dello stato.

In questa precaria situazione socio economica e politica, affermando, non occupandosi di religione, che la Fede era solo un instrumentum regni, per ingrandire e fortificare lo Stato, concepì l’idea di promulgare il giubileo ed elargì in cambio di monete sonanti, dispense ed indulgenze e vendette delle cariche cardinalizie. Tutto ciò e molto altro, consentì al Borgia di riempire le casse dello stato e di proseguire con successo, anche grazie al figlio Cesare, l’opera di recupero dei territori del Papa.

Nonostante ciò, fu lui a stabilire le cerimonie dell’inaugurazione e della chiusura degli anni santi, fino ad allora demandati agli umori dei papi regnanti, improntandole con un solenne cerimoniale e di grande spiritualità, grazie anche alla collaborazione del consigliere Giovanni Bucardo che, dal millequattrocentottantaquattro era il maestro della Cappella papale. Il Papa Alessandro, dal canto suo, ideò l’evento dell’apertura della Porta Santa, un simbolismo che si rifaceva al Vangelo di Giovanni: ”Io sono la porta, chi per me passerà, sarà salvo!” Evento esteso anche alle altre tre basiliche patriarcali, porte poi murate per il resto del tempo.

Queste notizie storiche sul Giubileo, forse non erano note a tutti i nostri pellegrini, ma ciò aveva poca importanza, ne saranno venuti a conoscenza negli anni successivi.

I nostri intrepidi pellegrini, Il giovedì successivo, ripresero il mare, giunsero al monte Circeo all’epoca chiamato “Monte Circello”. Si ancorarono nella zona detta “La farconara”, dove pescarono alcune murene.

Dopo alcune ore ripresero la navigazione che durò tutta la notte ed il giorno seguente, verso le ventidue approdarono a Capo d’Anzio.

Scesero a terra adattandosi a dormire su dei grossi sacchi di paglia.

Il giorno seguente, sabato primo maggio, prima dell’alba, ripresero il viaggio e giunti alla foce del Tevere, il capitano gettò il “ferro” (l’ancora) e attesero le prime luci del giorno, per ripartire verso il castello di Ostia, dove consumarono ciò che rimase delle murene. Appena possibile, i marinai diedero di mano ai remi e risalirono il Tevere fine alle ore dieci di sera quando arrivarono alle ripe di Roma, un approdo dove attraccavano barche anche grandi che trasportavano i materiali più vari, nonché quelle con i pellegrini che giungevano a Roma, come i nostri, via mare.

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  • La basilica di S. Pietro precedente all’attuale.

Il mattino seguente i nostri viaggiatori, tutti insieme, visitarono la Basilica di San Pietro, dove assistettero alla messa nella cappella di Papa Innocenzo.

“Finalmente, siamo arrivati, dicono quasi tutti all’unisono, con alle spalle la stanchezza del lungo e anche scomodo viaggio via mare!”

“Adesso dobbiamo attraversare la porta altre due volte, poi tre volte quelle di San Giovanni, Santa Maria Maggiore e di San Paolo”. Dice con tono sconsolato Palascandolo. La chiesa era colma di fedeli, che per tre volte entravano e uscivano per la porta che si apriva ogni cinquanta anni, cui si erano uniti anche i nostri pellegrini.

“Mamma mia quanta gente!” esclama Bernardino Bozzaotra.

“Quanti peccatori, direi caro amico!” gli replica Francesco Gattola.

“Non mi riferivo a voi don Zoccula e fra Mariano, voi siete scivolati fra la folla, leggiadri come una farfalla, tanto siete immuni da colpe da rimettere!” dice Gattola.

“Scherzate, scherzate pure, ringraziate la stanchezza del viaggio, sennò la remissione dei vostri peccati ve l’avrei data io!” risponde fra Mariano calcando i toni su “data io”.

“ Non vi prendete collera fra Mariano, la mia era solo una battuta per alleggerire il clima che stiamo vivendo.” Replica Gattola.

“Sì, sì, ho capito, poi ci penso io quando torniamo a Vico, quando vi confesserete…”.

Questo salace scambio di battute fra persone che si conoscono da tanti anni ha l’effetto di suscitare delle risate liberatorie e di mettere i pellegrini di buon umore.

Dopo la prima visita il gruppetto andò nel palazzo degli imperatori e nel carcere di San Pietro, dove si soffermarono a pregare e a bere dell’acqua benedetta.

Quando tornarono in San Pietro il pontefice benedisse i fedeli da dietro una “gelosia” (una specie d’imposta che attraverso le sue feritoie, consente di guardare chi é oltre e non viceversa).

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immagine del Colossseo intorno al 1500.

Appena calata la sera il gruppo si divise: il notaio e il suo padrino Zoccula affittarono una stanza vicino alla Ripa. Gli altri tornarono sulla barca, dove cenarono e poi dormirono.  Il mattino seguente compirono il canonico giro delle altre basiliche romane.

In quella di San Giovanni videro e toccarono la tavola dell’ultima cena; si misero in ginocchio su alcuni scalini di pietra, sui quali, secondo tradizione, Gesù era salito nella casa di Pilato (La famosa Scala Santa).

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Il Pantheon

Nella cappella del Sancta Sanctorum delle reliquie, videro le vesti di San Pietro e di altri santi e una parte della tavola sulla quale furono lanciati i dadi per sorteggiarsi le vesti di Gesù.

Dopo due giorni, tornarono a San Pietro, dichiararono al penitenziere di aver osservato le visite giubilari per i tre giorni consecutivi richiesti. Depositarono “l’elemosina” e ottennero lo “Jubileum concessit”.

Tornarono quindi, alla barca dove mangiarono.

Poi, con Pietro Pinto, padrone di un’altra barca, giunta a Roma prima di loro, passeggiarono per la Ripa, beandosi ancora delle bellezze della città di Roma.

-Tempio di Giano e San Giorgio al velabros 120 a

Altra stampa della roma Antica

Camminare per le strade della città caput mundi, significava provare delle grandi emozioni; immaginare che su quelle strade avevano camminato nel corso dei secoli precedenti i romani della Repubblica, poi quelli dell’Impero e una gran quantità di persone provenienti da tutte le regioni facenti parte del grande impero Romano, apportando il contributo delle loro tradizioni, religioni e culture varie, cui Roma è sempre stata disponibile all’accoglimento, poteva procurare dei brividi che attraversavano le schiene dei nostri intrepidi pellegrini.

Le opere d’arte antica e quelle più recenti, che grazie alle corti dei nobili e signorotti vari di Roma, abbellivano case e strade, non potevano lasciare indifferenti nemmeno chi possedesse un animo arido ed insensibile.

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Immagini della vita quotidiana a Roma in quel periodo.

Non era però facile vivere la quotidianità della città, perché grande era il numero dei ladri, degli assassini e dei banditi che, grazie allo scarso controllo infestavano la città e le campagne circostanti.   “Certo che si vedono certe facce in giro…” dice il notaio Palascandolo che insieme ai compagni camminava con molta circospezione e senza manifestare nessun segno che poteva attirare banditi ed assassini.

“Roma sarà anche un monumento continuo e perenne, ma viverci, se non sei un nobile o un ricco mercante che si può permettere degli scherani che vigilano sulle persone ed i loro beni, c’è, anche in questo caso, da rabbrividire, ma non d’emozione, ma per la paura.” Afferma ricevendo il consenso di tutti, Francesco Gattola.

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Un’altra immagine della quotidianità romana.

L’indomani, venerdì otto maggio, andarono alla chiesa di Santa Maria dell’Orto, dove frate Mariano celebrò la Messa.  La sera, i due sacerdoti Zoccula e frate Mariano, ritornaro a Vico Equense con un’altra barca di Sorrento.

Tutti gli altri trascorsero un’altra notte a Roma.

Il mattino successivo andarono nella basilica di San Giovanni in Laterano dove erano esposte reliquie degli apostoli Pietro e Paolo sopra l’altare maggiore in un tabernacolo ferreo. Poi altri edifici romani in rovina e gli archi trionfali marmorei.

La domenica dieci maggio andarono a San Pietro per vedere il volto del Cristo. A causa della pioggia poi ritornarono alla barca e si misero al riparo della tenda che la ricopriva.

Il lunedì giunsero a Roma, altri cittadini di Vico Equense: il notaio Nicodemo Parascandolo e Geronimo Longo, giunti a piedi da Astura (vicino ad Anzio), dove la barca del padrone Duracio Palumbo, era stata ricoverata a causa del mare burrascoso; con loro c’era Minichiello Palescandolo, che, essendo,  molto corpulento, si rifiutò di proseguire a piedi.

Rimasero ospiti per un giorno di Balsamo, il padrone della barca che gli fornì del cibo e da bere. Il dodici maggio, dopo che il notaio aveva acquistato delle verdure, la barca riprese la rotta inversa verso Vico Equense.

 

“Finalmente il pellegrinaggio è finito!” disse con un sospiro liberatorio il notaio Parascandolo.

“Già!” gli fecero eco Gattola e Bozzaotra.

“Adesso ci sono stati rimessi i peccati, abbiamo contribuito alle spese del papato, abbiamo visto Roma, le reliquie dei santi, conosciuto tanta gente e… anche corso qualche rischio”. Abbiamo adempiuto il nostro dovere religioso e possiamo rientrare nelle nostre case, sereni e soddisfatti che, se posso dirlo, sono le vere porte sante della nostra esistenza.           Alla mezzanotte de 13 maggio approdarono a Napoli, dove furono accolti dall’altro figlio del notaio, Nicolao Antonio, venuto di proposito da Vico Equense.

Poco prima dell’alba, i nostri pellegrini s’imbarcarono sul legno di padron Consalvo, per l’ultima tappa del loro avventuroso viaggio.  La barca iniziò la sua navigazione verso la costa sorrentina, nella quasi totale oscurità che ne impediva la vista come non consentiva ancora di vedere le condizioni del cielo.

Il mare era un po’ increspato, ma il vento che ne era all’origine, era favorevole per i nostri e avrebbe consentito loro di essere sulla spiaggia di Vico in meno di un’ora.

La navigazione proseguì così per circa mezz’ora, in un silenzio rotto solo dallo sciabordio delle acque contro lo scafo; si avvertiva l’ansia di tutti di giungere all’avito paese nel più breve tempo possibile.

L’alba si era levata e la sua luce permetteva ora di vedere l’agognata costa e anche le condizioni del cielo erano visibili, perché il padron Consalvo potesse valutare l’evoluzione del tempo e lo stato del mare.

Da buon marinaio di grande esperienza, ebbe la sensazione che la situazione meteorologica stesse peggiorando e con la prora volta verso la terra, ormai abbastanza vicina, confidò, in cuor suo, che il mare gli fosse ancora favorevole, anche se le mutazioni del tempo in mare aperto sono sempre in agguato e possono peggiorare in pochi minuti.

“Questa è una barca sicura e resistente, non mi vorrà tradire proprio oggi dopo tanti anni di navigazione!” pensò Consalvo, senza manifestare la sua preoccupazione ai suoi passeggeri, ma non poteva non notare che i marinai già erano preoccupati.

Per altre due tre miglia, pur se il mare stava ingrossando ed anche la pioggia iniziava a cadere, le condizioni consentivano ancora di veleggiare nella giusta direzione, pur se la barca ondeggiava notevolmente e alcune ondate irrompevano dentro di essa, bagnando tutti quanti.

Il notaio Reginabile, i suoi figli, Bozzaotra e Gattola, iniziarono ad agitarsi, cercando di ripararsi alla meglio; il capitano fece calare le vele che stavano subendo forti sollecitazioni dal vento, la cui intensità aumentava e ordinò ai marinai di mettersi ai remi e di vogare con quanta più forza avessero.

Intanto l’acqua che entrava nello scafo aumentava e nonostante il comandante cercasse di rassicurare i passeggeri, il panico stava prendendo il sopravvento aggravando ancor più la situazione di pericolo.

Ormai, pur se a poca distanza dalla costa, la burrasca stava causando il naufragio della barca per la sua ingovernabilità, nonostante l’impegno spasmodico dei marinai e del comandante.

I marosi stavano spingendo l’imbarcazione verso la parte di litorale di Vico Equense in cui erano presenti numerosi scogli che in quella situazione non si sarebbero potuti evitare.       Erano quasi giunti sotto la costa sulla quale troneggia la chiesa della SS. Annunziata, l’antica cattedrale di Vico Equense, sede vescovile fino al milleottocentodiciotto.

 

 

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Chiesa della SS Annunziata di Vico Equense, edificata fra il 1320 e il 1330, su un costone roccioso alto 90 metri a picco sul mare.

Le urla e le imprecazioni dell’equipaggio, le invocazioni alla Madonna perché li salvasse dal pericolo del naufragio e della morte, furono tanto forti da raggiungere gli equipaggi di tre gozzi di pescatori che erano usciti all’alba per salpare le reti. Essi senza indugi mollarono tutto e remando con vigore si avvicinarono alla barca, quasi completamente allagata ma grazie proprio a ciò era talmente appesantita da essere più stabile, permettendo, non senza difficoltà, ai pescatori di abbordarla e trascinare di peso gli occupanti nei loro gozzi. Appena tratti tutti in salvo, con vigorose remate e spinti anche dal mare, i gozzi riuscirono ad accostare alla riva sassosa, dove le barche si arenarono, consentendo a tutti di toccare finalmente terra!

Il notaio Palescandolo insieme a tutti gli altri alzò gli occhi verso la cattedrale e non poterono fare a meno di rendere grazie alla Madonna, mentre i pellegrini mostrarono verso la chiesa i loro “Jubileum concessit” che conservavano all’interno degli abiti, un po’ umidi ma integri e leggibili.

Dopo essere stati ristorati e asciugati dagli stessi pescatori nelle loro case, i quali ricevettero non solo parole, ma anche tangibili segni di riconoscimento per essere stati salvati dal pericolo incombente, tutti insieme, poi, fecero felicemente ritorno alle “porte sante” delle proprie case.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL PREDESTINATO


Alcuni anni fa, precisamente nel giugno duemilaotto, ero ad Ischia con alcuni amici per trascorrere una settimana nella splendida isola partenopea, famosa per il mare che la circonda, per le acque termali e le disparate possibilità del loro utilizzo, sia come curative, sia come dispensatrici di benessere per il corpo e anche per la mente.
Non c’è albergo che non abbia il suo centro benessere, organizzato in tutte le sue possibili varianti, per offrire la più ampia gamma dei servizi termali.
Noi eravamo ospiti di un albergo situato appena fuori l’abitato del comune di Ischia; esso si estende dalla strada litoranea fino al mare. Una piccola monorotaia a cremagliera consente agli ospiti di evitare le scale, per accedere all’albergo. Al termine della cremagliera, l’albergo, in vari terrazzamenti, ha le camere, i servizi centrali di ristorazione e alcune piscine con la temperatura dell’acqua indicata su dei cartelli posti in bella evidenza, in modo che i clienti possano scegliere e alternarsi nelle loro calde acque. Una piscina molto grande, invece, è costituita solo dall’acqua del mare sottostante. È possibile anche andare al mare, dove le palafitte immerse nel mare, sono dotate di lettini e ombrelloni e di scale per scendere nelle invitanti acque marine.

Il nostro soggiorno non si limitò solo a usufruire delle acque termali, dei massaggi e dei fanghi, ma ci dedicammo anche a visitare l’isola, che comprende sei comuni, tutti borghi caratteristici con oltre cinquantamila abitanti, dediti per tradizione al turismo oltre che alla gestione delle terme, cui si aggiungono l’artigianato e l’eccellente gastronomia tipica.

Durante una di queste gite, dietro consiglio di una nostra amica, nonché collega della banca in cui lavoravo io e due amici della comitiva, ci siamo recati a Barano d’Ischia per una capatina al promontorio di monte S. Angelo, da lì costeggiando la spiaggia di Maronti ci siamo inoltrati nel vallone Cava Oscura dove c’è il ristorante Oasi la vigna, suggeritoci per la buona cucina locale.
Ci siamo letteralmente incuneati nella stretta via che percorre il vallone di Olmitello-Maronti e in pochi minuti abbiamo raggiunto il ristorante nella zona Oasi la Vigna; la sua posizione è molto suggestiva: incastrata fra le ripide pareti della montagna e affiancata da un alveo torrentizio che raccoglie le acque di due sorgenti che furono ripristinate nel settecento, grazie al conte Corafà, viceré di Palermo e generale del regno delle due Sicilie. Grazie a lui, queste acque della fonte di Olmitello e definite “saluberrime”, furono restituite al ”publico uso”, unitamente ad un’altra fonte simile: quella della “Cava Oscura”.
Le proprietà curative di queste acque furono certificate, non solo per i bagni, ma anche per berle, per la loro caratteristica leggerezza.
Questi sintetici riferimenti storici servono a inquadrare la natura dei luoghi, grazie alle acque delle fonti citate, alla sua biodiversità faunistica e floreale, tutti elementi che coinvolgevano Giuseppe, il proprietario del ristorante, che era impegnato tenacemente nella tutela del posto dove viveva e lavorava.

Egli ci accolse con il calore tipico dei partenopei e ci servì delle pietanze buonissime, accompagnandole con la sua bonomia, creando un clima di empatia tale, da sembrare di essere a casa insieme a un amico in più.

Questa atmosfera fu tale che Giuseppe iniziò a parlare della propria attività e della propria vita con disinvoltura disarmante, coinvolgendo tutti noi nella sua chiacchierata.

Un particolare di questa conversazione, riguardante un incidente occorsogli nel millenovecentonovantadue, lasciò basiti e perplessi tutti noi che lo ascoltavamo attentamente, un episodio di cui ho conservato degli appunti frettolosi che sono enigmatici e surreali e che possono lasciare interdetto anche il lettore, come accadde a noi quando Giuseppe ce li descrisse.

Giuseppe doveva sostituire la lampadina di un lampione abbastanza alto e per potersi avvicinare al portalampade pensò di salire fino a esso mettendosi nella benna di un escavatore che lo poteva sollevare alla giusta altezza, ma un filo elettrico scoperto toccò la benna e a causa dell’amperaggio della corrente: “Fui investito da una scarica elettrica di forte intensità che mi percorse per tutto il corpo, a causa dei piedi nudi, fino a sentirmi un tutt’uno con la macchina.” Parole testuali.
In quei concitati e pochi attimi, riesce al liberarsi del filo e sotto choc, salta oltre la benna, per atterrare malamente di schiena e poi con le braccia e le gambe.
Fu subito soccorso dai fratelli e dagli amici presenti che si sincerarono che riuscisse a muovere gli arti, poiché non riusciva ad alzarsi. Fu ricoverato in ospedale e portò un busto ortopedico per molti mesi.
Dopo l’incidente ha rielaborato tutto quello che è avvenuto in quei pochi secondi tra la scossa subita, il salto e l’impatto con il terreno, avendo l’esatta percezione che quanto stava accadendo, richiedesse una decisione immediata sul suo comportamento e che da ciò dipendesse la sua sorte: vivere o morire!
In questa dimensione senza fisicità e senza tempo, vede una grande cornice dorata, nella quale scorge tante caselle simili alle celle di un alveare, dove riconosce che in ognuna di esse pulsa una vita, mentre in quella che distingue essere la sua, vede solo nero e nient’altro.
In quel frangente, sospeso nel tempo, lui continua a vedere, dall’alto, immobilizzato in terra il suo corpo, circondato dai fratelli, intenti ad aiutarlo e chiede di poter tornare a respirare e se proprio non potesse rientrare nel suo corpo, che almeno possa farlo in quello di un qualsiasi essere vivente, per quanto insignificante fosse, ma che sia utile e necessario come un uomo.

Fortunatamente Giuseppe dopo una lunga degenza si è ripreso ed ha continuato la sua attività di ristoratore e di tutela della sua isola d’Ischia.

È indubbio che questa sua esperienza “mistica” abbia modificata e condizionata la sua vita; lo choc elettrico ha influito sulla sua psiche e influenzato il suo modo di essere e di pensare: era stato travolto da quella sua esperienza paranormale che lo aveva condotto vicino alla morte e si sentiva un miracolato che aveva acquisito facoltà “speciali”, affermando di avere anche delle percezioni divinatorie!

Quando giunse il momento di salutarci, lo ringraziammo per la calorosa accoglienza e per la bontà delle pietanze ammanniteci, non escludendo che in un futuro prossimo saremmo ritornati a Ischia e nel suo locale.

Non è stato così!
Sono trascorsi sette anni e non siamo mai ritornati a Ischia e non ci torneremo più, almeno nel suo ristorante, perché il simpatico Giuseppe, nel febbraio di quest’anno duemilaquindici, durante un burrascoso temporale abbattutosi su Ischia, si è inoltrato in fondo all’alveo del torrente per controllare se la pioggia avesse causato danni alla sua casa ed al ristorante.
Mentre faceva questa ricognizione una frana staccatasi dalla costa del vallone Olmitello, lo investì, uccidendolo!

Questa notizia l’avevo ascoltata in un telegiornale, ma è stato uno degli amici con il quale sono stato ad Ischia, sette anni prima a comunicarmi che quella vittima del maltempo era Giuseppe…

La notizia mi ha colpito per due motivi: il primo, per la simpatia del personaggio che così cordialmente ci aveva ospitato nel suo ristorante, facendoci trascorrere delle ore serene con lui e soprattutto con le sue prelibate pietanze; il secondo è che non ho potuto fare a meno di collegare il luttuoso evento, con l’episodio raccontatoci anni prima.
Paranormale o no che sia, ho pensato che “Sorella Morte” abbia chiuso l’episodio rimasto aperto sette anni fa, in maniera inesplicabile e abbia, così, pareggiato i “suoi” conti, portando via con sé il buon Giuseppe!

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