UN’ESPERIENZA UNICA

UN’ESPERIENZA UNICA

Erano, ormai, numerosi anni che le mie ginocchia pativano delle sofferenze incostanti che mi avevano indotto a rinunciare, non solo a praticare alcune discipline sportive, ma anche a condizionarmi in alcune attività meno impegnative: quali delle gite che comportavano frequenti spostamenti a piedi e/o curare il giardino e anche, il solo dedicarmi alla preparazione delle pizze, nel locale adibito all’uopo, con il forno a legna, la cui organizzazione implica il trascorrere molto tempo in piedi.

Aver trascurato e colpevolmente sottostimato la mia condizione, ha fatto sì che sono stato costretto ad accettare la realtà di questa mia patologia e a decidermi di sottopormi a una visita ortopedica. Ho preso contatto quindi, con un amico, direttore del reparto ortopedico dell’ospedale di Palestrina, che esaminando le lastre fatte a entrambe le ginocchia, non ha potuto far altro che stabilire la necessità d’impiantare due protesi, quale unica possibilità di evitare guai peggiori, perdurando la situazione d’inerzia fino allora vissuta.

A malincuore, ho acconsentito a sottopormi al trapianto delle protesi e ho iniziato il percorso preoperatorio che si è prolungato per circa cinque mesi, per poi rivelarsi inutile, poiché l’ospedale di Palestrina era carente di medici anestesisti che potessero far fronte a tutte le esigenze dell’ospedale e l’operazione che mi competeva non poteva essere eseguita in tempi brevi, avendo la priorità altre situazioni cliniche più impellenti della mia.

A quel punto, non rimaneva altro che rivolgermi a un’altra realtà ospedaliera.

Una breve indagine su Internet mi ha portato a conoscere altri istituti che facevano questo tipo d’interventi, con una tecnica d’ultima generazione, assistita da un software che garantisce la massima precisione dell’impianto delle protesi.

Sono rimasto favorevolmente colpito dall’ospedale di Avezzano il cui reparto ortopedico, diretto dal dottor Iarussi, vantava una grande esperienza per questo tipo di trapianti, sia delle protesi del ginocchio, sia di quelle dell’anca.

Ne ho parlato con il mio amico dell’ospedale di Palestrina, che mi ha confermato che il suo collega, da lui conosciuto per motivi professionali, meritava tutta la fiducia possibile; si è, inoltre, attivato per contattarlo, con il risultato di avere appreso che dopo pochi giorni, il dottor Iarussi sarebbe stato presente in uno studio medico vicino alla mia abitazione, dove con una certa regolarità riceve i pazienti per una visita.

Mi sono, quindi, recato presso questo studio, previa prenotazione per la visita e il dottor Iarussi, cui è stata sufficiente la radiografia delle ginocchia e un rapido esame delle mie condizioni, quando mi sono steso sul lettino, per sentenziare che l’impianto delle protesi fosse l’unica panacea per risolvere i miei problemi!

Con molta professionalità e determinazione, ha preso nota dei miei dati che avrebbe consegnato alla sua caposala, perché organizzasse il percorso di preospedalizzazione, informandomi per telefono giorno e ora in cui sarei dovuto andare all’ospedale per eseguire gli esami propedeutici all’operazione.

Nel giro di pochi giorni sono stato chiamato, nel corso di una mattinata ho eseguito il percorso e sono tornato a casa, nell’attesa di ricevere la telefonata per ricoverarmi.

Con una precisione e una solerzia che mi ha favorevolmente colpito, sono stato convocato e dopo pochi giorni operato!

La stanza in cui sono stato ricoverato comprendeva quattro letti: il mio e quelli di due altri pazienti, uno dei quali l’avevo già incontrato nello studio medico di Villa Adriana, anche lui in attesa di essere visitato dal dottor Iarussi, che già l’aveva operato l’anno prima a un ginocchio e ora, era pronto per l’altro.

Un altro paziente proveniva da Salerno e aveva già subito anni prima un trapianto che non era riuscito bene e quindi, è dovuto ricorrere a un’altra operazione, che grazie ai progressi della tecnologia, gli avrebbe garantito un risultato ottimale e definitivo per l’articolazione da operare.

Io ero l’unico a sottoporsi per la prima volta a un impianto di protesi nel ginocchio, per ora… Il prossimo sarà deciso dopo diversi mesi dall’attuale e dopo aver valutato la sua fattibilità, secondo le condizioni in cui il primo arto si mostrerà durante la visita, che dovrà stabilire la data della sua esecuzione.

Il giorno successivo al mio ricovero, il quarto letto è stato occupato da un ragazzo che aveva avuto un incidente con la moto che gli ha procurato una frattura scomposta della caviglia sinistra. Anche l’altro letto ha ospitato per pochi giorni altri due pazienti, non solo con problemi ortopedici.

Quest’ampia premessa è finalizzata a inquadrare l’ambiente in cui si sarebbe svolta la nostra vita per alcuni giorni, fino a quando avremmo potuto lasciare l’ospedale per essere dirottati nella struttura sanitaria di Tagliacozzo, deputata, principalmente, al recupero fisioterapico post operatorio.

Questa situazione è stata un’esperienza unica: il primo approccio, da paziente con un ospedale pubblico, finora, il che mi ha indotto un po’ di ansia, vista la condizione della pubblica sanità e tutti gli inconvenienti e problemi che spesso vi accadono, come ampiamente rappresentato sia dai giornali, sia dalle televisioni.

Nel millenovecentonovantanove, subii un intervento chirurgico in una nota clinica di Roma con tutte le comodità e cure che una clinica privata può riservare. Il confronto fra le due condizioni, non poteva non procurarmi qualche preoccupazione…

Devo, onestamente, affermare che queste perplessità sono svanite nel giro di poche ore: il contatto con il personale medico e paramedico, grazie alla loro professionalità, disponibilità e competenza, ha fugato tutti i miei dubbi.

L’umore della stanza ha risentito favorevolmente di questo clima che regnava intorno a noi pazienti, tant’è che si è creata un’empatia tra noi degenti, in particolare, estesa, poi, anche al personale dell’ospedale.

Non è esagerato affermare che in quei giorni, precedenti e successivi agli interventi per l’impianto delle protesi è nata un’amicizia sincera, come solo la condivisione di una “malattia” può indurre, per la compartecipazione al dolore che essa implica e agli inconvenienti che da esso derivano.

Analogamente, questo sentimento di comunanza si è sviluppato anche tra le nostre mogli che avevano legato tra loro grazie alle affinità che le caratterizzavano e che, oltre ad assisterci materialmente e “moralmente”, non mancavano, quando possibile, di uscire dal nosocomio per andare a mangiare insieme in una vicina tavola calda, mentre noi dovevamo accontentarci dei “modesti pasti” (per esser buoni) che l’ospedale ci serviva!

Quest’atmosfera che si era creata ha contribuito ad alleviare le nostre sofferenze e a farcele sopportare con rassegnazione.

Non è possibile elencare le battute che ci scambiavamo, i commenti sulla nostra condizione di operati e sulle difficoltà che avevamo a compiere le azioni più comuni, prime fra tutte quelle di andare ai bagni che erano situati nel corridoio quasi di fronte alla nostra stanza, ma che sembravano lontani e inaccessibili anche con il deambulatore che doveva aiutarci negli spostamenti; sorvolo poi sui commenti riguardanti la difficoltà di compiere le nostre esigenze fisiologiche cui, alcune volte, avevano bisogno di un ausilio per poterle portare a termine…

Vale la pena, citarne una per tutte, che mi ha visto protagonista in una delle notti. Per aggirare la difficoltà di arrivare ai bagni con il deambulatore, perché la mia capacità di muovermi con la gamba sinistra rigida e immobile era quasi nulla, anche per la fatica che i movimenti necessari per scendere dal letto comportavano, decisi di ricorrere al famigerato “pappagallo”, con la convinzione che avrei evitato gli inconvenienti citati, senza immaginare quali altri potessero essere collegati a quella scelta.

Infatti, mi sbagliavo. Dopo un paio di tentativi, nella quasi totale oscurità della stanza, appena rischiarata da luci del corridoio, andati a buon fine, nonostante l’inattesa difficoltà di usare il pappagallo per la fisica impossibilità di accedervi per una regressione anomala dell’organo deputato alla minzione, che a mala pena riusciva a sporgersi nel collo del pappagallo, forse per l’effetto dell’anestesia o dei farmaci somministratimi.

Dopo un certo tempo, ecco riaffacciarsi la necessità di usare di nuovo lo “strumento”. Forte delle esperienze precedenti mi accingo a replicare il tentativo con maggiore sicurezza. Quella stessa sicurezza, però, mi ha indotto a usarlo in modo troppo disinvolto, con il risultato di farmela addosso e di rovesciare tutto il contenuto prima immesso, perché l’avevo sollevato troppo.

Ho cercato di tamponare il tutto con numerosi fogli di scottex, con modesti risultati e ho continuato a rimanere in quelle condizioni per il resto della notte, non chiamando gli infermieri di turno per non disturbare il sonno degli altri pazienti!

La mattina dopo, ho raccontato quello che avevo combinato e com’era prevedibile, sono stato oggetto di scherno da parte di tutti che hanno ampiamente riso del mio “incidente”.

Dopo ancora alcuni giorni in cui ci sono stati somministrati diversi farmaci e compiuti periodici controlli sullo stato delle ferite, ci comunicano il nostro trasferimento presso la struttura sanitaria di Tagliacozzo, in cui avremmo compiuto il ciclo di circa trenta giorni di fisioterapia. Avremmo ivi proseguito la terapia farmacologica e la medicazione delle ferite cui sarebbe seguita, a tempo debito, la rimozione dei punti metallici applicati lungo tutta la ferita che inizia dalla metà coscia fino quasi alla caviglia, per un numero di quaranta circa.

Questo periodo di riabilitazione è stato il più faticoso e anche il più doloroso, per gli esercizi che i fisioterapisti ci facevano compiere per diverse ore del giorno, suddivise fra il mattino e il pomeriggio.

S’inizia subito con il Kinetec, un congegno in cui si pone la gamba operata e questa è automaticamente flessa e distesa dal meccanismo del dispositivo la cui angolazione operativa è gradualmente ampliata di volta in volta, fino a giungere ad un angolo di piega di almeno 110 gradi.

Inutile nascondere che i primi giorni, quando l’attrezzo giungeva alla flessione indicata, il dolore era lancinante e spesso imploravo la fisioterapista assegnatami, il cui nome è Chiara, di modificarne l’angolo: azione che spesso diceva di fare, salvo inserire di nuovo il valore iniziale; un gioco perverso cui mi sono subito assuefatto, perché se la terapia deve essere efficace, va messa in conto anche un po’ di sofferenza!

Quando il tempo dedicato al Kinetec era scaduto, si proseguiva la terapia in quella che gli addetti chiamano “palestra”, dove altri vari strumenti di “tortura” erano allineati e pronti a ricevermi, quasi con sadico compiacimento della mia “torturatrice” Chiara.

A questo punto, è doveroso da parte mia manifestare tutta la mia gratitudine, non solo verso Chiara ma anche nei confronti di tutti gli altri fisioterapisti che io ho soprannominato gli angeli della riabilitazione: Manuela, Francesca, Stefania, Claudia, Emanuela e Pierluigi unico maschio fra cotante donne, che spesso non nascondeva la sua sofferenza per questa condizione che lo pone in uno stato di subordinazione, quasi manifesta, cui deve inevitabilmente sottostare.

Di questa squadra, con la quale abbiamo convissuto, per circa un mese, i miei compagni d’operazione ed io, abbiamo avuto modo di apprezzarne la qualità professionale e umana.

Quella professionale, per la dedizione, la cura e l’attenzione che essi pongono nei confronti dei pazienti loro assegnati, che in molti casi sono persone molto avanti con l’età che hanno bisogno di un impegno maggiore, onere sempre espletato con grande delicatezza e dolcezza, in particolare nei confronti di pazienti molto gravi al cui confronto la nostra condizione era ben poca cosa, facendoci, quindi, riflettere sulle nostre patologie e accettarle con umiltà, senza lamenti inutili.

Quella umana, per la familiarità che si è creata con ognuno dei suoi elementi tale da rendere più sopportabili gli esercizi cui eravamo sottoposti.

Non mancavano le battute, i lazzi e le barzellette che suscitavano le risa di tutti i presenti in palestra con noi.

Come non mancavano, grazie anche alle signore più anziane in cura, gli accenni sulle loro qualità culinarie, sui piatti tipici abruzzesi e via dicendo, che ci procuravano una sofferenza addirittura superiore a quella degli esercizi cui eravamo sottoposti, anche perché dopo la fisioterapia mattutina ci attendeva, alle ore dodici circa, un pranzo abominevole, spesso immangiabile (anche la cena non era da meno!).

Per quanto mi riguarda, sono rimasto in credito con Pier luigi dell’assaggio degli gnocchi con i ceci preparati dalla mamma e tanto decantati. Forse quando ritornerò il prossimo anno per l’operazione al ginocchio destro, riuscirò a degustarli!

A questo proposito, mi preme dire che nel corridoio antistante alle palestre c’era sempre qualche leccornia dolce a disposizione dei fisioterapisti di cui una in particolare, di cui non ricordo il nome, se ne cibava spesso e con voluttà, nella breve pausa che si concedeva.

Rimanendo sempre sull’argomento cibo, non posso evitare di raccontare un episodio avvenuto negli ultimi giorni di degenza: poiché si era diffusamente nota, tra parenti e amici, non solo miei, la pessima qualità del cibo che c’era propinato, nonostante la possibilità di scegliere le pietanze in anticipo, gli orari della sua distribuzione erano diventati un’angoscia da sopportare più delle cure fisioterapiche e mediche. Questa situazione ha offerto l’occasione a un gruppetto di amici, già colleghi della banca, dove lavoravo e soci, come me, dell’associazione pensionati di venire a trovarmi preavvisandomi che avrebbero portato un pranzo completo e abbondante intorno alle tredici circa di un giorno prestabilito.

Conoscendo bene i soggetti in questione, ho apprezzato molto l’iniziativa, che ho comunicato al mio compagno di stanza Alberto, che avrebbe condiviso, ovviamente, anche lui, questa gradita sorpresa.

Dopo un paio di giorni fui avvisato telefonicamente che verso l’una sarebbero arrivati con tutto il necessario per imbandire un pranzo nella nostra stanza d’ospedale.

Alberto ed io rientrati nella stanza, dopo la quotidiana seduta fisioterapica, ci siamo dati da fare per approntarla per ospitare i miei amici alla meglio. Mentre il tempo trascorreva, cresceva anche l’ansia e il desiderio di mangiare finalmente un pasto degno e soddisfacente; il tempo sembrava che si fosse dilatato e anche un minimo ritardo ci angosciava. Comunque, dopo le tredici, sono arrivati, Carmelo, Giorgio e Piero, ognuno con una sporta contenente il necessario per mangiare: il ritardo era dovuto al fatto che erano andati in un ristorante, per la precisione il Miramonti di Tagliacozzo, per ordinare il pranzo.

Esso consisteva in un primo di mezze maniche alla matriciana, opportunamente confezionate entro contenitori trasparenti a chiusura ermetica giunti molto caldi, seguivano, poi, due “vaschette” di alluminio con una quindicina di salsicce cotte alla brace in una e nell’altra abbondante cicoria ripassata. A tutto ciò si aggiungeva una bottiglia di vino bianco, pane, piatti, bicchieri e tovaglioli; poi abbiamo scoperto anche una busta contenente numerose fette di “coppa” acquistate da un macellaio adiacente al ristorante e un piccolo vassoio con dei dolcetti al marzapane, acquistati a Roma.

Inutile dire che tanta bontà mi ha lasciato di stucco e commosso e abbiamo tutti mangiato, con gran piacere quasi tutto, anche se le porzioni di pasta erano più che abbondanti, tant’è che una l’abbiamo condivisa con altri degenti di un’altra stanza.

Alberto ed io eravamo in pieno deliquio e ci siamo riconsolati nello spirito, anche se dovevamo soffrire ancora per qualche giorno, ma le dimissioni erano ormai vicine e quella giornata trascorsa in compagnia degli amici ci aveva rinfrancato lo spirito e potevano sopportare ancora qualche giorno di terapia e… di “pranzi”!

In conclusione, per tornare al centro della vicenda, quella che doveva essere la fase più lunga e dolorosa della nostra degenza, si è tramutata, grazie a tutti, pazienti e fisioterapisti, in un’occasione d’incontro e di piacevole scambio di conoscenze, che proseguiva anche nella corsia dove ci sono le stanze di degenza e perfino nel corridoio centrale dove, alcuni di noi si riunivano in un vero e proprio “salotto”.

Tutto ciò ha fatto sì che quando qualcuno era dimesso e tornava a casa ci si salutava con calore, abbracci e un pizzico di malinconia.

Questo era il giusto epilogo di un’esperienza di sofferenza che riesce ad accomunare alcune persone, più di altre, uscendone arricchite spiritualmente.

Analogo comportamento è stato tenuto nei confronti, non solo della “squadra” dei fisioterapisti, ma anche delle infermiere del piano cui vanno il mio sincero saluto e il ringraziamento per il loro comportamento, dovuto certamente, ma eseguito con grande professionalità e umanità!

Arrivederci al prossimo anno!

 

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Ricordi autobiografici. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.