Considerazioni sull’attentato di Kabul

Rileggendo alcuni scritti sparsi fra i miei “files” mi permetto di pubblicarne alcuni di essi, come ho fatto ieri con il titolo Amore e oggi, 23 maggio 2016, le mie considerazioni in seguito all’attentato dei nostri militari in Iran.  In questo brano riporto fatti e pensieri che sono attuali anche oggi, grazie alla “scoperta” della Fallaci da parte mia.
Otto anni fa, a distanza di pochi giorni dal più grave atto di terrorismo perpetrato a danno di migliaia d’innocenti ed al solo scopo di dimostrare, come l’organizzazione di Bin Laden, poteva colpire il cuore degli Stati Uniti d’America, il Corriere della Sera, sabato 29 settembre 2001, pubblicava lo scritto di Oriana Fallaci: ”La rabbia e l’orgoglio”.

La presentazione di Ferruccio de Bortoli dello scritto suddetto, annunciava l’eccezionalità dell’evento che “rompeva” un silenzio decennale, ma l’evento apocalittico avvenuto a poca distanza dalla sua casa di Manhattan, sconvolse, ovviamente, anche il suo romitaggio. Il direttore del Corsera la sollecitò vivamente, nei giorni immediatamente successivi alla strage, perché scrivesse qualcosa su quello che aveva visto e vissuto in prima persona.
“Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima.” Aveva scritto anni prima e quest’affermazione era ancora vera.

Oriana consegnò al direttore un pezzo forte, dirompente, denso di pensieri e ragionamenti sull’America, sull’Italia e sul mondo islamico, realtà a lei ben note per averle conosciute direttamente sul campo, senza tema per la propria incolumità e la propria indipendenza di giudizio. Pensieri che le uscivano “dal cervello attraverso il cuore”.

“Qualcuno queste cose le doveva dire. Le ho dette.”

De Bortoli concludeva che: “Farà discutere. Eccome”

Così fu, infatti.

Al brano pubblicato, seguì un libro dallo stesso titolo poi “La forza della ragione”.

Fino a quel giorno non avevo letto nulla della scrittrice Oriana, perché lei era ascritta al gruppo d’intellettuali e scrittori che faceva capo alla “sinistra”, per il suo giovanile impegno nella resistenza e per le sue prese di posizione contro i regimi dittatoriali del Portogallo e della Grecia. Non avevo compreso che lei, però, non era omologata a quel tipo di cultura, ma era uno spirito libero che ragionava con la sua testa e dotata di un’intelligenza e di una razionalità per nulla subornate da nessuna ideologia, in poche parole: una donna libera nel senso letterale della parola e da buona toscana, quello che c’era da dire, lo diceva, senza preoccuparsi di nulla.

Per questo motivo mi accostai allo scritto pubblicato dal Corsera, con una certa diffidenza nell’errato convincimento di trovare nelle sue frasi delle posizioni da me non condivisibili.
Iniziai a leggere il pezzo e nonostante il brano fosse scritto in caratteri piccoli ed occupasse quattro pagine del giornale, lo lessi con un interesse crescente, cui s’aggiunse un’emozione profonda che, giunto alla fine, mi lasciò confuso stordito e commosso. Il solo ricordarlo mi procura un brivido.

Avevo appena letto un brano in cui la logica, la razionalità e l’intelligenza dell’autrice avevano disegnato uno scenario sul quale mi sentii totalmente all’unisono, non trovando una virgola fuori posto da quella che era una denuncia lucida e circostanziata della situazione del mondo soggetto ai gruppi di fanatici religiosi islamici.

La sua battaglia è continuata per altri anni finché “l’alieno”, come lei definiva il tumore che si era intrufolato nel suo corpo, non ebbe ragione di lei.

Una delle cose che più mi disgustò, in quel periodo fu che alcuni individui, fra cui cito la Guzzanti e il “premio Nobel” Fo, fecero più volte dell’ironia, anche volgare, su di lei e la sua malattia, arrivando persino a dichiarare che fosse tutta una montatura per fare effetto sulla pubblica opinione!

Questa lunga premessa serve ad introdurre l’argomento principale che mi prefiggo con questa nota: alcune considerazioni sugli avvenimenti afgani.

L’impegno “occidentale” in quel paese, definito di “pace” e finalizzato a favorire la ricostruzione di uno Stato degno di questo nome, con le istituzioni idonee e funzionanti, dopo decenni di guerre che hanno lasciato il paese in una situazione di caos totale, cui partecipiamo con lo zelo e l’umanità che ci contraddistingue, si sta rivelando sempre più inadatto alla situazione effettiva sul campo.

Se la Fallaci fosse ancora con noi, avrebbe già da tempo criticato questo tipo d’intervento, che pur di ottenere l’egida dell’ONU e delle altre istituzioni internazionali, è stato sottoposto a tanti compromessi che ipocritamente aggirano e sottovalutano la vera condizione del paese!

Chiamare una missione di pace l’intervento dei soldati, quando sul terreno esistono ancora truppe irregolari di “insorgenti” (come sono delicatamente chiamati ora i Talebani) che dispongono di armi e munizioni a profusione e che usano strategie inusuali, dai Kamikaze all’assoluto disprezzo della vita in generale, non facendo distinzioni, nelle loro azioni, se le vittime siano solo militari o anche e soprattutto loro connazionali, bambini compresi.
Le regole d’ingaggio stabilite dai paesi partecipanti alla missione si sono rivelate un grande ostacolo all’espletamento della missione, cosiddetta di pace, ed al raggiungimento dei suoi obiettivi, perché solo sotto un attacco armato diretto, i militari possono reagire per difendersi, ma non devono andare oltre come perseguire i responsabili e catturarli.
Di fronte a questo tipo di nemico non ci sono molte possibilità di fare ciò che la missione si proponeva e, soprattutto, non si risolve la situazione alla radice che sarebbe quella di estirpare la mala pianta degli “insorgenti”. Liberando la popolazione dal loro ricatto e dai loro soprusi, si restituisce la dignità ad un popolo che la merita come qualsiasi altro, liberandoli anche dalla pratica di coltivare il papavero da oppio che, è spesso, l’unica fonte di reddito di molti afgani e il sistema per autofinanziarsi degli “insorgenti” per continuare nei loro folli progetti terroristici, in nome di una guerra santa che non ha nessuna giustificazione religiosa e politica, oltre che morale.

I nostri ragazzi che operano in quel territorio, con abnegazione sacrificio e senso del dovere, lo fanno con il fianco scoperto, perché mentre i talebani combattono con ogni mezzo, i nostri militari devono solo porre in atto espedienti elusivi ed inutili e non possono anch’essi lottare, perché non si ha il coraggio di andare fino in fondo come si dovrebbe, con il risultato che si muore senza che la situazione cambi effettivamente nella sostanza.
A questo aggiungasi che in patria c’è qualcuno, come Saviano, che usa parole per svilire le loro figure e il loro impegno. I nostri soldati (mercenari per qualcuno), però, a differenza del sopravvalutato scrittore, rischiano la pelle in prima persona e non hanno le scorte personali (che in Afghanistan non servirebbero a nulla).

In questa situazione che accomuna tutte le forze internazionali, l’unico risultato che si raggiungerà è quello d’impantanarsi in un conflitto senza fine, come accadde ai russi. Si abbia il coraggio politico di fare veramente una guerra bilaterale, ripulendo la zona ed il Pakistan dagli “insorgenti”, restituendo agli afgani il controllo del loro paese. Ci saranno ancora morti e si spenderanno tanti soldi, ma se si riuscisse nell’intento quanti se ne eviteranno quando i terroristi non avranno più le loro basi, i soldi e gli appoggi e probabilmente non potranno più progettare e realizzare attentati in qualsiasi parte del mondo, tipo Madrid, Londra e via dicendo.

Se si vuole veramente rendere l’onore che meritano questi nostri fratelli, se si deve pagare un tributo di sangue, che almeno sia per estirpare questi “alieni” non appartenenti alla specie umana, non condividendone alcun valore fondamentale, solo allora questo impegno e questi sacrifici saranno veramente utili a tutti noi!

A questo voglio aggiungere di stare attenti a casa nostra perché come diceva la Fallaci:
”Continua la fandonia dell’Islam “moderato”, la commedia della tolleranza, la bugia dell’integrazione.”

Voglio finire onorando i sei uomini periti nell’attentato di Kabul e augurarmi che un giorno si possa dire che sono morti per una giusta causa, estirpando il fanatismo religioso, che è il nazifascismo del terzo millennio, prima che possa causare danni irreparabili, per consentire agli uomini di buona volontà e buon senso e non soggiogati da nessuna religione e/o ideologia, di vivere in tranquillità e in sicurezza.

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