IL GIUBILEO DEL 1500 INDETTO DAL PAPA ALESSANDRO VI BORGIA

Papa Alessandro VI Borgia

                                               Papa Alessandro VI Borgia

 

Questo evento importante della chiesa cattolica Romana non ha una precisa origine, anche se nell’alto medioevo, alcune testimonianze frammentarie, fanno riferimento alla tradizione ebraica che ogni cinquanta anni ne imponeva uno di riposo, per i terreni coltivati e le iniziative correlate, come la restituzione delle terre confiscate, la liberazione degli schiavi e altro ancora.

Di ciò non erano informati né i papi dell’epoca né i prelati in genere.

La gerarchia cattolica cominciò a prendere in considerazione l’idea del Giubileo, dopo la cosiddetta Perdonanza del Papa Celestino V, che nell’anno milleduecentonovantaquattro, emise la Bolla del Perdono che consentiva a tutti coloro che sarebbero andati nella chiesa di S. Maria di Collemaggio, nella città di Aquila, di ricevere, se confessati e pentiti, l’indulgenza plenaria.

Fu così che nel milleduecentonovantanove, alcune vaghe notizie riferiscono di un’indulgenza plenaria per il capodanno del nuovo secolo, che si sarebbe ottenuta per il solo fatto di entrare nella basilica di San Pietro.

Bonifacio VIII mutuò il gesto di Celestino V e indisse il primo Giubileo ufficiale della storia della chiesa, con la clausola di dover visitare trenta volte le basiliche romane, se abitanti a Roma e quindici volte se stranieri: le basiliche erano quelle di S. Pietro e di S. Paolo.

Da allora il rito ha rispettato la cadenza cinquantennale della storia ebraica, trasformata in venticinquennale dal Papa Paolo II nel millequattrocentosettantacinque; intervallo valido ancora oggi, con l’eccezione di pochi casi, in cui furono proclamati dei giubilei straordinari, come, ad esempio, quello attuale di Papa Francesco.

Dal Medioevo in poi questi eventi hanno sempre indotto centinaia di migliaia di credenti a compiere il pellegrinaggio a Roma.

Nei primi giubilei della storia, sono persuaso che le motivazioni religiose erano preponderanti e i pellegrini erano compresi del contenuto mistico della ricorrenza.

Va da sé che anche nei secoli scorsi, tale ingente massa di devoti che si procurava l’indulgenza plenaria, dava anche un notevole contributo alla chiesa romana ed alla sua economia. Con il trascorrere degli anni, questa seconda opzione divenne sempre più preponderante, non dimentichiamoci che una delle tesi di Martin Lutero era proprio la contestazione del mercimonio delle indulgenze e tutto ciò che ruotava intorno ad esse!

Sappiamo tutti come poi è andata a finire…

A tale proposito, possiamo citare uno dei tanti episodi legati ai giubilei, in particolare quello del millecinquecento, grazie al rinvenimento, in un archivio storico del vescovado di Vico Equense, di un manoscritto in cui si descrive, per sommi capi, il viaggio compiuto da alcuni personaggi, religiosi e civili di questa cittadina, sita nella penisola sorrentina.

Da questo resoconto abbiamo preso lo spunto per redigere un racconto abbastanza verosimile alla realtà del tempo.

È il pomeriggio del venticinque aprile del millecinquecento, giorno in cui si festeggia San Marco evangelista.

Nella spiaggia della marina di Vico Equense si sono radunati: il notaio Reginabile Palascandolo con il figlio Alessandro, il suo padrino Masello Zoccula, primicerio del capitolo, il frate domenicano Mariano Masturzzo, cappellano della chiesa di Santa Maria della Pace, (oggi identificabile con la cappella dell’arciconfraternita dell’Assunta, in via monsignor Michele Natale, nel trecentesco centro storico del Vescovado), cui si aggiunsero altri due importanti concittadini: Francesco Gattola e Bernardino Bozzaotra.

Tutti erano nell’attesa che lo “Schifo” (una piccola barca di servizio sui mercantili), fosse armata e preparata al “viaggio”.

L’equipaggio era composto dal padrone della barca Consalvo Balsamo e da quattro esperti marinai di Vico Equense.

Si apprestavano a salire sull’imbarcazione, con trepidazione ma, anche contenti d’intraprendere questo viaggio verso Roma per il giubileo dell’anno millecinquecento, indetto dal papa Catalano della famiglia dei Borgia, Alessandro VI.

Una volta a bordo, ognuno di loro occupò il posto assegnatogli dal comandante, i marinai, issarono le vele che un leggero vento gonfiò subito, ma giungeranno a Napoli, solo il mattino della domenica.

Un po’ intorpiditi dalla traversata del golfo che non è stata confortevole, riuscendo a dormire solo a tratti, scesero dalla barca e si diressero verso la chiesa di S. Pietro martire, per assistere alla santa messa domenicale.

Nella stessa giornata, poi, ripresero il viaggio per fermarsi poco dopo capo Miseno, nella zona chiamata mare morto, perché, di solito, al riparo dai venti.

Per tutta la sera non fecero altro che pescare, forse per prepararsi la cena sulla barca, non certo per portare i pesci fino a Roma!

Il ventisette aprile, ripresero il mare ed ebbero qualche difficoltà perché il tempo stava mutando e con esso anche il mare si stava agitando. Tra sballottamenti e qualche scroscio di acqua salata riuscirono a giungere nel porto di Gaeta, dove rimasero per ben tre giorni aspettando che la burrasca si placasse.

Forse avranno consumato i pesci pescati anche nella locanda dove si saranno sistemati,per poi dormire un po’ più decentemente e senza ondeggiamenti.

La compagnia, comunque era piacevole, tutti si conoscevano da qualche tempo e quindi, non avevano problemi di socializzazione.

Davanti al tavolo della locanda, dove i residui della cena appena mangiata, si alternavano ad alcune bottiglie di vino, ormai vuote, iniziarono a scambiarsi le proprie opinioni sul viaggio intrapreso e sul giubileo che li attendeva a Roma.

Il notaio Palascandolo esordisce:

“Amici, come e cosa vi aspettate dalla città di Roma e da questo Giubileo?”

“Cosa ci dobbiamo attendere… che i nostri peccati siano rimessi e che le nostre anime ritornino alla purezza natale, dicono entrambi i religiosi della comitiva.”

“Bella risposta padri, anche se mi sembra strano che due anime sante come voi possano avere dei peccati da mondare…” Replica sornione Francesco Gattola.

“C’è sempre qualche peccato, seppur veniale, anche tra noi preti.”

“Figuriamoci allora fra noi laici, vero Palascandolo?” afferma Bernardino Bozzaotra.

“Tu che ne pensi?”

“Hanno ragione loro siamo tutti peccatori e noi laici, attaccati alle cose terrene lo siamo ben più di loro!”

“Beh, senza essere blasfemo o irriverente, credo che a Roma e intendo nel papato e nella curia, almeno stando alle voci che giungono anche fino al nostro piccolo paese, di giubilei non ne basterebbe uno solo!” dice Palascandolo con un malcelato compiacimento per aver stuzzicato e provocato i due sacerdoti.

“Su questo sono d’accordo con te, gli replica il Gattola!”

Non c’è noto sapere se qualcuno dei “pellegrini” fosse stato già nella città di Roma.

Probabilmente i due canonici sì, per gli altri, forse era la prima esperienza nella capitale della cristianità.

Alessandro VI “regnava”, è proprio il caso di dire, da sei anni.

Nel millequattrocentonovantadue successe a Papa Innocenzo VII di cui fu uno stretto e fedele collaboratore, nonché ascoltato consigliere.

La sua elezione fu veloce, avendo avuto il consenso di tutti i cardinali elettori, tranne quello di Della Rovere acerrimo nemico della casata Borgia.

Dopo l’elezione fu munifico nei confronti di tutti i suoi elettori, distribuendo regali e prebende a piene mani, nonché incarichi di prestigio nella Curia.

Papa Borgia era il più ricco dei cardinali e la sua incoronazione fu fastosa e solenne. Gli piaceva strabiliare i suoi sudditi e la manifestazione del lusso e dell’esteriorità derivavano dalla sua origine spagnola, anche se la sua famiglia non era di gran nobiltà e non aveva molte risorse economiche.

Il suo successo culminato con l’elezione al soglio pontificio fu la coronazione di un percorso dovuto alle sue indubbie qualità intellettuali, grandi come lo erano anche i suoi difetti.

Non era certo un teologo ma un papa re e non aveva una vita moralmente irreprensibile. Già quando giunse a Roma, aveva due figli di madri sconosciute. Cardinale a venticinque anni, divenne prete a trentasette.

Fu sedotto dalla bellezza di Vannozza de’ Cattanei, da cui ebbe quattro figli: Giovanni, Cesare, Lucrezia e Giuffredo.

Quando divenne Papa aveva oltre sessanta anni, ma le su facoltà mentali erano intatte. Iniziò a distribuire cariche ed onori a quasi tutti i membri della sua famiglia, con una pratica nepotistica sfacciata.

Riuscì, però, a rimettere in sesto le finanze, a contenere le lotte fra le famiglie nobili romane che da troppo tempo si susseguivano senza che il potere del papato riuscisse a controllarle.

Combatté la corruzione e la simonia del clero, sfoltì la classe burocratica, ridusse i salari, mise un limite alle spese, aumentò le tasse e impose a tutti, lui compreso, un regime di austerità.

Per quanto riguarda l’urbe, in essa regnava una completa anarchia; i nobili aizzavano il popolo contro i propri rivali e contro il Papa.

La sicurezza pubblica era inesistente, tant’è che aumentò il numero degli sbirri: la quantità dei delitti, dei furti, delle rapine e delle violenze era ingente.

Per dare un monito ed un freno a tale andazzo, non mancò di mandare a morte degli omicidi lasciandoli penzolare più giorni dalle forche istituite nelle piazze.

Analogo impegno mise nel recuperare la dignità e l’integrità dello Stato Pontificio, contrastando i despoti e ricacciando le potenze straniere che erano entrate nei confini dello stato.

In questa precaria situazione socio economica e politica, affermando, non occupandosi di religione, che la Fede era solo un instrumentum regni, per ingrandire e fortificare lo Stato, concepì l’idea di promulgare il giubileo ed elargì in cambio di monete sonanti, dispense ed indulgenze e vendette delle cariche cardinalizie. Tutto ciò e molto altro, consentì al Borgia di riempire le casse dello stato e di proseguire con successo, anche grazie al figlio Cesare, l’opera di recupero dei territori del Papa.

Nonostante ciò, fu lui a stabilire le cerimonie dell’inaugurazione e della chiusura degli anni santi, fino ad allora demandati agli umori dei papi regnanti, improntandole con un solenne cerimoniale e di grande spiritualità, grazie anche alla collaborazione del consigliere Giovanni Bucardo che, dal millequattrocentottantaquattro era il maestro della Cappella papale. Il Papa Alessandro, dal canto suo, ideò l’evento dell’apertura della Porta Santa, un simbolismo che si rifaceva al Vangelo di Giovanni: ”Io sono la porta, chi per me passerà, sarà salvo!” Evento esteso anche alle altre tre basiliche patriarcali, porte poi murate per il resto del tempo.

Queste notizie storiche sul Giubileo, forse non erano note a tutti i nostri pellegrini, ma ciò aveva poca importanza, ne saranno venuti a conoscenza negli anni successivi.

I nostri intrepidi pellegrini, Il giovedì successivo, ripresero il mare, giunsero al monte Circeo all’epoca chiamato “Monte Circello”. Si ancorarono nella zona detta “La farconara”, dove pescarono alcune murene.

Dopo alcune ore ripresero la navigazione che durò tutta la notte ed il giorno seguente, verso le ventidue approdarono a Capo d’Anzio.

Scesero a terra adattandosi a dormire su dei grossi sacchi di paglia.

Il giorno seguente, sabato primo maggio, prima dell’alba, ripresero il viaggio e giunti alla foce del Tevere, il capitano gettò il “ferro” (l’ancora) e attesero le prime luci del giorno, per ripartire verso il castello di Ostia, dove consumarono ciò che rimase delle murene. Appena possibile, i marinai diedero di mano ai remi e risalirono il Tevere fine alle ore dieci di sera quando arrivarono alle ripe di Roma, un approdo dove attraccavano barche anche grandi che trasportavano i materiali più vari, nonché quelle con i pellegrini che giungevano a Roma, come i nostri, via mare.

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  • La basilica di S. Pietro precedente all’attuale.

Il mattino seguente i nostri viaggiatori, tutti insieme, visitarono la Basilica di San Pietro, dove assistettero alla messa nella cappella di Papa Innocenzo.

“Finalmente, siamo arrivati, dicono quasi tutti all’unisono, con alle spalle la stanchezza del lungo e anche scomodo viaggio via mare!”

“Adesso dobbiamo attraversare la porta altre due volte, poi tre volte quelle di San Giovanni, Santa Maria Maggiore e di San Paolo”. Dice con tono sconsolato Palascandolo. La chiesa era colma di fedeli, che per tre volte entravano e uscivano per la porta che si apriva ogni cinquanta anni, cui si erano uniti anche i nostri pellegrini.

“Mamma mia quanta gente!” esclama Bernardino Bozzaotra.

“Quanti peccatori, direi caro amico!” gli replica Francesco Gattola.

“Non mi riferivo a voi don Zoccula e fra Mariano, voi siete scivolati fra la folla, leggiadri come una farfalla, tanto siete immuni da colpe da rimettere!” dice Gattola.

“Scherzate, scherzate pure, ringraziate la stanchezza del viaggio, sennò la remissione dei vostri peccati ve l’avrei data io!” risponde fra Mariano calcando i toni su “data io”.

“ Non vi prendete collera fra Mariano, la mia era solo una battuta per alleggerire il clima che stiamo vivendo.” Replica Gattola.

“Sì, sì, ho capito, poi ci penso io quando torniamo a Vico, quando vi confesserete…”.

Questo salace scambio di battute fra persone che si conoscono da tanti anni ha l’effetto di suscitare delle risate liberatorie e di mettere i pellegrini di buon umore.

Dopo la prima visita il gruppetto andò nel palazzo degli imperatori e nel carcere di San Pietro, dove si soffermarono a pregare e a bere dell’acqua benedetta.

Quando tornarono in San Pietro il pontefice benedisse i fedeli da dietro una “gelosia” (una specie d’imposta che attraverso le sue feritoie, consente di guardare chi é oltre e non viceversa).

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immagine del Colossseo intorno al 1500.

Appena calata la sera il gruppo si divise: il notaio e il suo padrino Zoccula affittarono una stanza vicino alla Ripa. Gli altri tornarono sulla barca, dove cenarono e poi dormirono.  Il mattino seguente compirono il canonico giro delle altre basiliche romane.

In quella di San Giovanni videro e toccarono la tavola dell’ultima cena; si misero in ginocchio su alcuni scalini di pietra, sui quali, secondo tradizione, Gesù era salito nella casa di Pilato (La famosa Scala Santa).

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Il Pantheon

Nella cappella del Sancta Sanctorum delle reliquie, videro le vesti di San Pietro e di altri santi e una parte della tavola sulla quale furono lanciati i dadi per sorteggiarsi le vesti di Gesù.

Dopo due giorni, tornarono a San Pietro, dichiararono al penitenziere di aver osservato le visite giubilari per i tre giorni consecutivi richiesti. Depositarono “l’elemosina” e ottennero lo “Jubileum concessit”.

Tornarono quindi, alla barca dove mangiarono.

Poi, con Pietro Pinto, padrone di un’altra barca, giunta a Roma prima di loro, passeggiarono per la Ripa, beandosi ancora delle bellezze della città di Roma.

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Altra stampa della roma Antica

Camminare per le strade della città caput mundi, significava provare delle grandi emozioni; immaginare che su quelle strade avevano camminato nel corso dei secoli precedenti i romani della Repubblica, poi quelli dell’Impero e una gran quantità di persone provenienti da tutte le regioni facenti parte del grande impero Romano, apportando il contributo delle loro tradizioni, religioni e culture varie, cui Roma è sempre stata disponibile all’accoglimento, poteva procurare dei brividi che attraversavano le schiene dei nostri intrepidi pellegrini.

Le opere d’arte antica e quelle più recenti, che grazie alle corti dei nobili e signorotti vari di Roma, abbellivano case e strade, non potevano lasciare indifferenti nemmeno chi possedesse un animo arido ed insensibile.

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Immagini della vita quotidiana a Roma in quel periodo.

Non era però facile vivere la quotidianità della città, perché grande era il numero dei ladri, degli assassini e dei banditi che, grazie allo scarso controllo infestavano la città e le campagne circostanti.   “Certo che si vedono certe facce in giro…” dice il notaio Palascandolo che insieme ai compagni camminava con molta circospezione e senza manifestare nessun segno che poteva attirare banditi ed assassini.

“Roma sarà anche un monumento continuo e perenne, ma viverci, se non sei un nobile o un ricco mercante che si può permettere degli scherani che vigilano sulle persone ed i loro beni, c’è, anche in questo caso, da rabbrividire, ma non d’emozione, ma per la paura.” Afferma ricevendo il consenso di tutti, Francesco Gattola.

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Un’altra immagine della quotidianità romana.

L’indomani, venerdì otto maggio, andarono alla chiesa di Santa Maria dell’Orto, dove frate Mariano celebrò la Messa.  La sera, i due sacerdoti Zoccula e frate Mariano, ritornaro a Vico Equense con un’altra barca di Sorrento.

Tutti gli altri trascorsero un’altra notte a Roma.

Il mattino successivo andarono nella basilica di San Giovanni in Laterano dove erano esposte reliquie degli apostoli Pietro e Paolo sopra l’altare maggiore in un tabernacolo ferreo. Poi altri edifici romani in rovina e gli archi trionfali marmorei.

La domenica dieci maggio andarono a San Pietro per vedere il volto del Cristo. A causa della pioggia poi ritornarono alla barca e si misero al riparo della tenda che la ricopriva.

Il lunedì giunsero a Roma, altri cittadini di Vico Equense: il notaio Nicodemo Parascandolo e Geronimo Longo, giunti a piedi da Astura (vicino ad Anzio), dove la barca del padrone Duracio Palumbo, era stata ricoverata a causa del mare burrascoso; con loro c’era Minichiello Palescandolo, che, essendo,  molto corpulento, si rifiutò di proseguire a piedi.

Rimasero ospiti per un giorno di Balsamo, il padrone della barca che gli fornì del cibo e da bere. Il dodici maggio, dopo che il notaio aveva acquistato delle verdure, la barca riprese la rotta inversa verso Vico Equense.

 

“Finalmente il pellegrinaggio è finito!” disse con un sospiro liberatorio il notaio Parascandolo.

“Già!” gli fecero eco Gattola e Bozzaotra.

“Adesso ci sono stati rimessi i peccati, abbiamo contribuito alle spese del papato, abbiamo visto Roma, le reliquie dei santi, conosciuto tanta gente e… anche corso qualche rischio”. Abbiamo adempiuto il nostro dovere religioso e possiamo rientrare nelle nostre case, sereni e soddisfatti che, se posso dirlo, sono le vere porte sante della nostra esistenza.           Alla mezzanotte de 13 maggio approdarono a Napoli, dove furono accolti dall’altro figlio del notaio, Nicolao Antonio, venuto di proposito da Vico Equense.

Poco prima dell’alba, i nostri pellegrini s’imbarcarono sul legno di padron Consalvo, per l’ultima tappa del loro avventuroso viaggio.  La barca iniziò la sua navigazione verso la costa sorrentina, nella quasi totale oscurità che ne impediva la vista come non consentiva ancora di vedere le condizioni del cielo.

Il mare era un po’ increspato, ma il vento che ne era all’origine, era favorevole per i nostri e avrebbe consentito loro di essere sulla spiaggia di Vico in meno di un’ora.

La navigazione proseguì così per circa mezz’ora, in un silenzio rotto solo dallo sciabordio delle acque contro lo scafo; si avvertiva l’ansia di tutti di giungere all’avito paese nel più breve tempo possibile.

L’alba si era levata e la sua luce permetteva ora di vedere l’agognata costa e anche le condizioni del cielo erano visibili, perché il padron Consalvo potesse valutare l’evoluzione del tempo e lo stato del mare.

Da buon marinaio di grande esperienza, ebbe la sensazione che la situazione meteorologica stesse peggiorando e con la prora volta verso la terra, ormai abbastanza vicina, confidò, in cuor suo, che il mare gli fosse ancora favorevole, anche se le mutazioni del tempo in mare aperto sono sempre in agguato e possono peggiorare in pochi minuti.

“Questa è una barca sicura e resistente, non mi vorrà tradire proprio oggi dopo tanti anni di navigazione!” pensò Consalvo, senza manifestare la sua preoccupazione ai suoi passeggeri, ma non poteva non notare che i marinai già erano preoccupati.

Per altre due tre miglia, pur se il mare stava ingrossando ed anche la pioggia iniziava a cadere, le condizioni consentivano ancora di veleggiare nella giusta direzione, pur se la barca ondeggiava notevolmente e alcune ondate irrompevano dentro di essa, bagnando tutti quanti.

Il notaio Reginabile, i suoi figli, Bozzaotra e Gattola, iniziarono ad agitarsi, cercando di ripararsi alla meglio; il capitano fece calare le vele che stavano subendo forti sollecitazioni dal vento, la cui intensità aumentava e ordinò ai marinai di mettersi ai remi e di vogare con quanta più forza avessero.

Intanto l’acqua che entrava nello scafo aumentava e nonostante il comandante cercasse di rassicurare i passeggeri, il panico stava prendendo il sopravvento aggravando ancor più la situazione di pericolo.

Ormai, pur se a poca distanza dalla costa, la burrasca stava causando il naufragio della barca per la sua ingovernabilità, nonostante l’impegno spasmodico dei marinai e del comandante.

I marosi stavano spingendo l’imbarcazione verso la parte di litorale di Vico Equense in cui erano presenti numerosi scogli che in quella situazione non si sarebbero potuti evitare.       Erano quasi giunti sotto la costa sulla quale troneggia la chiesa della SS. Annunziata, l’antica cattedrale di Vico Equense, sede vescovile fino al milleottocentodiciotto.

 

 

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Chiesa della SS Annunziata di Vico Equense, edificata fra il 1320 e il 1330, su un costone roccioso alto 90 metri a picco sul mare.

Le urla e le imprecazioni dell’equipaggio, le invocazioni alla Madonna perché li salvasse dal pericolo del naufragio e della morte, furono tanto forti da raggiungere gli equipaggi di tre gozzi di pescatori che erano usciti all’alba per salpare le reti. Essi senza indugi mollarono tutto e remando con vigore si avvicinarono alla barca, quasi completamente allagata ma grazie proprio a ciò era talmente appesantita da essere più stabile, permettendo, non senza difficoltà, ai pescatori di abbordarla e trascinare di peso gli occupanti nei loro gozzi. Appena tratti tutti in salvo, con vigorose remate e spinti anche dal mare, i gozzi riuscirono ad accostare alla riva sassosa, dove le barche si arenarono, consentendo a tutti di toccare finalmente terra!

Il notaio Palescandolo insieme a tutti gli altri alzò gli occhi verso la cattedrale e non poterono fare a meno di rendere grazie alla Madonna, mentre i pellegrini mostrarono verso la chiesa i loro “Jubileum concessit” che conservavano all’interno degli abiti, un po’ umidi ma integri e leggibili.

Dopo essere stati ristorati e asciugati dagli stessi pescatori nelle loro case, i quali ricevettero non solo parole, ma anche tangibili segni di riconoscimento per essere stati salvati dal pericolo incombente, tutti insieme, poi, fecero felicemente ritorno alle “porte sante” delle proprie case.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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