
“Il pozzo dell’amore” così chiamato dagli indigeni, dove si scambiano le promesse d’amore.
Questo luogo è all’interno della foresta

ancora la cascata che è alimentata sempre da una sorgente, oltre che dalle piogge stagionali, nonostante sia all’altezza di 1283 s.m. Il salto più alto dell’acqua è di 807 metri
Racconto di viaggio
Il 29 aprile del 2003, mia moglie, tre amici ed io, siamo giunti a Caracas, capitale del Venezuela.
Se fino a qualche tempo prima, qualcuno mi avesse chiesto dove sarei voluto andare, oltre l’Atlantico, avrei sicuramente risposto: “Negli Stati Uniti!”, almeno la prima volta che avessi affrontato la trasvolata oceanica.
Non avrei mai immaginato, invece, che, la prima volta, avrebbe avuto come meta il Venezuela.
Il motivo, è presto detto.
In quel lontano paese vi era stato inviato mio figlio, assunto da un’impresa italiana, la Ghella spa, specializzata in gallerie e trafori. Già realizzatrice della Metro di Caracas, stava realizzando un analogo impianto, anche nella città di Valencia, città a 150 km ad ovest della capitale, capoluogo dello stato Carabobo. Contemporaneamente stava costruendo, in consorzio con altre due società italiane, l’Impregilo e l’Astaldi, anche una linea ferroviaria, di circa 150 km, che avrebbe collegato Caracas con Puerto Cabello, dove ci sono gli impianti di raffinazione del petrolio.
Mio figlio Massimo, era giunto in Venezuela nel 2002, appena compiuti 25 anni ed a soli quattro mesi dal conseguimento della laurea in ingegneria.
Per motivi di studio, era già stato all’estero per diversi mesi, ma sempre in ambito europeo.
La concomitanza della lontananza (10.000 km), l’ancor giovane età e la prima vera esperienza lavorativa, sono state le molle che ci hanno spinto ad andare in questo bello e particolare paese.
Massimo stava bene, sia come sistemazione logistica sia come lavoro e non aveva incontrato alcuna difficoltà, benché fosse il più giovane ingegnere del consorzio, grazie alla sua determinazione, ed alla buona padronanza dello spagnolo, che aveva studiato, per sua scienza, negli ultimi due anni dell’università, presso l’istituto Cervantes di Roma.
Ovviamente tutto questo non era sufficiente per noi genitori, che volevano constatare, de visu, in quali condizioni si trovava e con chi aveva a che fare.
Ci hanno seguito, in questo intento, anche una coppia di amici, che hanno tenuto a battesimo Massimo, Carmelo e Mirella ed un’altra amica Luisa, venuta da sola, perché il marito, poco amante del mare, si è defilato, ipotizzando che tutto il nostro soggiorno si sarebbe consumato esclusivamente sulle spiagge caraibiche.
Così non è stato e, ancora oggi, rimpiange la decisione di non essersi unito a noi.
La mattina del 30 aprile, dopo una notte dedicata al recupero della stanchezza del viaggio, che a causa della differenza di sei ore, ci aveva costretti a vivere un giorno di luce di 24 ore, accompagnati da un amico di Massimo, William, colombiano, insegnante di matematica all’università, siamo effettivamente andati al mare, in località Morrocoy, con due taxi.
Da qui, un arzillo ed anziano pescatore, ci ha portato all’isola di Cayo Sombrero, a pochi minuti di barca dalla costa.
Il primo impatto con il mar dei Carabi è stato entusiasmante.
L’isola era piena di palme, quasi fino dentro il mare. La spiaggia di un candore quasi abbagliante, l’acqua cristallina ed azzurra fino alla barriera, a circa cento metri dalla riva.
Un pescatore del posto ci ha preparato un ottimo pranzo a base di pesce arrosto e fritto, peccato per il condimento a base di… mosche, che hanno fatto prima di noi a realizzare che c’era il pesce.
Organizzandoci in due squadre: una che puliva il pesce ed una che cacciava le mosche, siamo riusciti a mangiare, distraendole con le teste e le lische del pesce, che avevamo adagiato sulla sabbia ad una certa distanza da noi. Tanta era la fame, ma anche la bontà del pesce e della sua cottura.
Questo era solo un anticipo della vacanza, tanto per tenerci impegnati per un giorno, nell’attesa dell’indomani in cui avremmo raggiunto una delle due mete importanti ed interessanti, programmateci da mio figlio: La Gran Sabana, nel parco nazionale Canaima.
La mattina del primo maggio 2003, l’appuntamento con i taxi era alle 4,30.
Da Valencia saremmo andati all’aeroporto di Caracas e da qui in volo per Puerto Ordaz, che insieme ad altre due cittadine, sviluppatesi contemporaneamente negli ultimi anni, formano un grande e moderno agglomerato urbano, denominato Ciudad Guayana. Il tutto insiste nel bacino fluviale dove il fiume Caronì (che è il collettore di tutte le acque della Gran Sabana) confluisce nell’Orinoco, che in quel luogo ha una larghezza di tre km.
Dopo circa un’ora di volo, con un bireattore delle linee interne, arrivammo a Puerto Ordaz, dove nel parcheggio dell’aeroporto, c’era la nostra guida Julio, di origine uruguaiana, ad attenderci per guidarci nella Gran Sabana con il suo fuoristrada Toyota Land Cruiser, sei cilindri, 2.500 di cilindrata, a benzina, con gomme supermaggiorate.
A proposito, in Venezuela la benzina costa all’incirca 5 centesimi il litro (90 Bolìvares, ex 90 lire di una volta) ed un pieno del Toyota, il cui consumo si aggirava sui 4 km litro, si faceva con 5.000 bolìvares.
Dopo aver caricato i bagagli sul tetto del Toyota, ci accomodammo, si fa per dire, su suoi sedili, disposti fronte marcia, su tre file.
Carmelo, il più grosso, accanto a Julio, Mirella, Luisa, sulla seconda fila, Massimo, Patrizia ed io sull’ultima.
Chiusi gli sportelli, iniziò il viaggio verso il parco di Canaima, che ci impegnò per tutto il resto del giorno.
Dopo circa un’ora ci fermammo al centro commerciale Pampero, per far rifornimento di acqua, bibite e ghiaccio da sistemare in un grosso contenitore termico posto nel bagagliaio. La trasferta, infatti, è di circa 500 km di strade asfaltate e non e bisogna essere ben equipaggiati, contro il caldo umido tropicale del Venezuela.
Dopo circa tre ore, la nostra guida si fermò per farci visitare la miniera d’oro di Eldorado, ormai aperta solo per i turisti, in quanto non più redditizia per l’estrazione dell’oro.
Subito dopo ci fermammo al primo “ristorante” che trovammo aperto e cominciammo ad adattarci ad una cucina molto limitata e di sopravvivenza.
Il viaggio proseguì piuttosto monotono. Nella prima parte abbiamo attraversato un territorio molto ampio e pianeggiante. Da entrambe i lati della strada vi sono delle enormi fazende, per lo più, monoculturali.
Ogni tanto, si attraversava un centro abitato, che insiste ai lati della strada che percorrevamo, e più si procedeva, più questi villaggi hanno le caratteristiche degli avamposti di frontiera, sia per la struttura e le attività che vi si svolgono, sia per la tipologia umana che vi si incontra.
La strada che porta alla Gran Sabana, fino ad una ventina di anni fa, si fermava al Km 88, dove c’erano gli ultimi segni della civiltà moderna. Oltre quel chilometro c’era solo una pista ricavata nella foresta pluviale. Nel 1991 essa è stata completamente asfaltata sino al confine con il Brasile.
Il completamento della strada ha incentivato anche il turismo. Per fortuna esso è ancora circoscritto ad un limitato numero di persone, se paragonato alla bellezza ed all’unicità dei luoghi che stavamo per raggiungere.
L’ultima sosta, prima della tappa finale, la facemmo proprio al km 88. Ci sgranchimmo le gambe, andammo a soddisfare i nostri bisogni fisiologici e, circondati dalla curiosità di un gran numero di persone, alcune dalle facce poco raccomandabili, risalimmo sulla Toyota ed iniziammo ad addentrarci, finalmente, nel parco Canaima.
Dopo pochi km la strada cominciò a salire. Il Parco, infatti, è un vastissimo altopiano, la cui altezza va dai 400 metri ai 1.000 metri sul livello del mare, oltre i “tepui” (montagne in lingua indio), che vedremo più avanti.
Mentre salivano, la nostra guida si fermò in prossimità di un tornante e precisamente al km 98,5, dove c’è un grande monolito roccioso, che incombe sulla strada, con accanto, in basso a sinistra, una piccola edicola dedicata alla Madonna. Julio, ci spiega che l’origine di questa immagine votiva è stata voluta dagli indios, dopo che, durante la costruzione della strada, niente e nessuno è riuscito a togliere questo enorme masso, né a scalfirlo, tant’è che esso è stato nominato: “ Pedra de la Virgen”. Probabilmente, non hanno insistito più di tanto, per non perdere tempo e denaro, ma per gli indios era un segno divino e… va bene così.
In questo luogo iniziammo a scattare le fotografie di rito e, camminando un po’ per la strada giungemmo ad un punto dove la foresta era diradata e non ci impediva di guardare oltre. Con grande stupore di tutti, ci rendemmo conto di essere saliti abbastanza per ammirare l’orizzonte davanti a noi. A perdita d’occhio, vedemmo, ed era solo un piccolo scorcio, la foresta equatoriale. Fu solo il primo emozionante contatto con questo territorio, che geologicamente risale a 1500/2000 milioni di anni fa.
Rimasi senza fiato e non sarebbe stata l’unica volta.
Risalimmo in macchina.
Anche se non mancava molto fino a Chivatòn, luogo nel quale avremmo trascorso le prossime due notti, era meglio affrettarsi, perché gli ultimi 50 km erano di “strada” sterrata, abbastanza impegnativa.
Si continuava a salire.
Percorremmo quasi ottanta chilometri in perfetta solitudine, non incontrammo più di dieci autoveicoli, nelle ultime ore di viaggio.
Non solo la solitudine ci faceva compagnia, ma anche la foresta pluviale. Il nastro d’asfalto della strada era in migliori condizioni di quello fino al km 88, perché più recente e meno trafficato. Ogni tanto eravamo costretti a fare degli “slalom” per evitare qualche grosso ramo rovinato sulla strada o qualche macchia di piante, con cui la foresta cerca di riappropriarsi di ciò che era suo.
Ci volle più di un’ora per lasciarsi alle spalle quella strada, che sembrava tagliata con un coltello nella foresta.
Ci lasciammo alle spalle anche la naturale apprensione su quello che sarebbe successo se avessimo avuto un guasto, che ci avesse immobilizzato lì, in mezzo alla giungla.
Cominciammo a scendere verso l’altopiano che si apriva davanti ai nostri occhi, in tutta la sua vastità (la superficie del parco corrisponde all’incirca a quella della Svizzera).
Giungemmo al bivio per Chivatòn ed imboccammo la strada sterrata.
Per fare i 48 km che rimanevano ci impiegammo più di un’ora, sballottati e compressi fra di noi, cercando, vanamente di trovare degli appigli dove ancorarci. In quel tragitto, scoprimmo l’utilità di quel fuoristrada dal motore potente e dalle ruote mostruose.
Finalmente, verso il tramonto, giungemmo in quello che ingenuamente avevamo creduto fosse un albergo. Nessuno di noi aveva considerato che trovare un “albergo”, come comunemente lo si intende, in un territorio praticamente deserto, immutato da milioni di anni, era un’idea, a dir poco, velleitaria.
L’edificio che ci avrebbe ospitato, era a forma di T, nella parte più lunga c’erano otto porte che si affacciavano su un patio, dietro le quali ci sarebbero dovute essere le “camere”.
Fortunatamente…c’erano.
Alcune avevano anche quattro/cinque letti, separati da un piccolo tramezzo e un angolo bagno, privo di porta, ma dotato di una tenda, con un lavandino ed uno specchio a misura di gnomi, una tazza (quella c’era, così non saremmo andati ad evacuare nella Sabana) ed un angolo con la cipolla per la doccia.
Ci consolammo, avendo temuto di peggio e ci accingemmo a darci una sistemata ed a farci una doccia.
Il lavandino e la doccia avevano un solo rubinetto. Pazienza, ci dicemmo, tanto siamo prossimi all’equatore e l’acqua sarà ad una temperatura accettabile.
Aprire il rubinetto e lanciare un urlo, fu un tutt’uno.
“Cazzo! È…ghiacciata… ma com’è possibile?” “ E chi si lava, con quest’acqua”.
Nessuno di noi, tranne mio figlio, lanciando urla selvagge, riuscì a farsi una doccia.
Io, imprecando, riuscii solo a lavarmi la testa che portava i segni dei 500 km percorsi con i finestrini aperti.
Tutti quanti noi riducemmo al minimo indispensabile le necessarie abluzioni.
In un modo o nell’altro, riuscimmo a prepararci per la cena che sarebbe stata servita in un locale molto ampio, nella sezione orizzontale della T. Detto locale era munito di finestre senza vetri, come si conviene all’equatore, solo che faceva quasi freddo, come in autunno da noi. Indossammo un giacchetto e ci accomodammo al tavolo.
Non eravamo soli nel “5 stelle”, a occhio e croce eravamo una ventina di ospiti, infatti c’erano altri 4 fuoristrada, oltre al nostro.
La cena, considerato il tutto, fu accettabile.
Le sorprese, però, non erano ancora finite.
Julio, ci comunicò che alle ore undici, il generatore di corrente sarebbe stato spento e ci fornì delle candele e dei fiammiferi, a chi, come noi, non fumava.
Ormai eravamo pronti a tutto, la stanchezza e l’indubbia bellezza del posto non ci permisero di obiettare alcunché.
Ci mettemmo seduti sotto il patio ad ammirare il cielo stellato, a respirare quell’aria pura ed incontaminata e ci ritrovammo, tutti, in pace con noi stessi e con il mondo.
Prima che la luce venisse meno ci ritirammo, ciascuno nella sua stanza e alla luce di un’unica lampadina appesa al centro della parte anteriore del locale, che illuminava, a mala pena, solo quella parte, abbiamo cercato di arrivare al letto, di trovare i pigiami da indossare e le coperte per coprirci all’equatore!
Alle undici in punto, calò il buio preistorico e buona notte!
Poche ore dopo, ebbi la necessità di andare al bagno e non trovavo la candela ed i fiammiferi, che, senza pensarci più di tanto, erano stati appoggiati da qualche parte, che nessuno di noi tre ricordava. Fu così che tra parolacce e sbattendo contro tutto ciò che c’era nella stanza, muri compresi, li trovai, appena in tempo, per non farmela addosso.
Buona notte di nuovo!
Fortunatamente, il sole sorse anche il mattino dopo.
Dopo aver riposato e fatto colazione alla venezuelana con il latte le frittelle di mais, chiamate “arepa” che sostituiscono il nostro pane, ed altre cose che non ricordo, ci siamo guardati intorno per ammirare il posto alla luce del sole.
La nostra “posada” era situata in mezzo ad una vastissima radura: la Sabana, appunto, con poche macchie di alberi che si scorgevano qua e là. Aveva anche delle altre piccole pertinenze, dove si poteva dormire, un piccolo recinto con qualche animale domestico, compresi due cavalli. Di fianco, scorreva un piccolo rio, che s’infilava tra le rocce affioranti. La sua profondità era minima e lo si guadava facilmente ed obbligatoriamente per raggiungere la strada sterrata percorsa per giungere lì e che continuava per altri siti.
L’acqua era cristallina e fredda. Ho seguito per alcuni metri il suo percorso, saltando da una roccia ad un’altra, nell’attesa che tutti fossimo pronti per addentrarci nel parco. Il fiumiciattolo s’addentrava, più avanti, in una piccola macchia, poco distante dal recinto degli animali.
Tutt’intorno, silenzio e spazi sconfinati.
Cominciammo a verificare la realtà di questo luogo, rimasto immutato nel corso di milioni di anni.
Appena fummo tutti pronti, la nostra guida Julio, ci portò al vicino villaggio indio di Kavanayén, dove c’è un’antica missione Salesiana. Mentre ci recavamo in questo villaggio, chiedemmo al nostro accompagnatore, dove fosse la cascata di Salto Angel e come ci si potesse arrivare.
Julio, a questo punto, iniziò a darci delle circostanziate informazioni sul parco che stavamo visitando, che in sintesi, riporto:
Il territorio del parco della Gran Sabana, ha delle caratteristiche geomorfologiche uniche al mondo. Esso origina dalla divisione del supercontinente Pangea, secondo la teoria della deriva dei continenti, cioè da quando l’Africa ha iniziato a staccarsi dal continente Americano. Il territorio in questione, era, originariamente, un unico enorme altopiano, che con il mutare delle condizioni climatiche, indotte dalla separazione delle terre emerse e dall’origine dell’oceano Atlantico, subì delle continue, lente e radicali mutazioni. L’originale composizione dell’altopiano che era costituita da un massiccio cristallino precambriano, ricoperto di rocce sedimentarie mesozoiche dalle forme tabulari, fu, nei milioni di anni (1500/2000), eroso e modellato dagli elementi naturali, nella forma attuale. Il parco è rimasto un altipiano, ma non più livellato, ma terrazzato, da una quota minima di circa 400 metri sul mare fino ai 2.800 metri delle montagne più alte, che gli indigeni hanno chiamato Tepui.
La specificità e l’eccezionalità del luogo sta proprio in queste grandi formazioni, che se hanno l’altezza delle montagne, non ne hanno alcuna altra caratteristica. Esse sono, infatti, le parti residuali dell’originario altopiano di rocce sedimentarie che non hanno subito l’erosione del tempo. Questa vasta zona è, quindi caratterizzata da centinaia di tepui, più o meno estesi, completamente piatti, che si elevano, al di sopra della savana o della foresta pluviale, per parecchie centinaia di metri.
Un’altra peculiarità, unica e particolare, di questi tepui è la vegetazione che cresce su di essi, ancora in gran parte sconosciuta, in quanto ogni tepui è un ecosistema autonomo, separato dal resto della sabana fin dall’età preistorica e che quindi ha subito una sua originale e specifica evoluzione, facendo sì che i fiori e le piante di un tepui non esistano sugli altri.
Al disotto di queste “montagne piatte”, esistono numerosi altri ecosistemi vegetali, che vanno dalla foresta pluviale alla savana erbacea, con tutte le varianti possibili. Anche questa complessità vegetale è un fenomeno unico al mondo.
Fatta questa premessa, torniamo al Salto Angel.
Essa è la cascata più alta del mondo, perché nasce sull’Auyan-Tepui, la cui altezza media è di circa 2600 metri e la cui superficie è di circa 700 kmq!
La parete del tepui, da cui si affaccia la cascata, è uno strapiombo di circa mille metri. La cascata, a differenza delle numerosissime altre che vengono giù dai tepui, è sempre alimentata da una sorgente e non risente dell’influsso delle precipitazioni, salvo aumentare la sua portata in occasione della stagione delle piogge.In considerazione dell’eccezionalità del fenomeno naturale, chiedemmo al Julio di attivarsi per poter arrivare sul posto. Egli ci rispose che l’unico mezzo che ci avrebbe permesso di ammirare questa meraviglia della natura, tempo permettendo, era l’aereo.
Noi ci guardammo perplessi, perché non immaginavamo dove andare a prenderlo e quanto tempo ci volesse. Julio ci rassicurò, dicendoci che ci si andava con piccoli aerei da turismo, che avevano la base abbastanza vicino e che, disponibili, sarebbero giunti entro pochi minuti, tanto erano in grado di atterrare sull’erba della savana.
Julio si mise in contatto con coloro che gestivano il servizio aereo con la radiotrasmittente del Toyota e dopo una trattativa sul prezzo, chiusa per 600 dollari, decidemmo d’imbarcarci in quest’altra avventura.
Restammo nei pressi del villaggio di Kavanayén, in attesa dell’aereo.
Percepimmo il rumore del velivolo, quando era ancora lontano, grazie al silenzio che regna nel parco. Dopo poco atterrò sull’erba.
Era un piccolo monomotore Chessna 22, con sei posti, compreso il pilota.
La vista dell’aereo così piccolo, ha suscitato molte perplessità in alcuni di noi, per non dire paura.
Luisa ha deciso che non sarebbe salita su quel “trabiccolo” per nessuna ragione o…cascata al mondo. Mio figlio Massimo, che aveva già rinunciato a seguirci per mancanza di posto ed anche perché era l’unico che ci sarebbe potuto tornare in un’altra occasione, salì al posto di Luisa, visto che era comunque pagato ed insistette perché salisse anche la mamma, Patrizia, che era anche lei sul punto di rinunciare.
L’aereo così piccolo, ed il pilota, anch’egli piccolo (non credo superasse il metro e sessanta!), vestito con pantaloni corti, camicia e guanti di pelle, senza le estremità delle dita, dal fare molto cordiale e scanzonato, suscitarono qualche motivo d’apprensione in tutti noi.
L’escursione, ormai, era prenotata ed andava pagata, le rassicurazioni di Julio, in merito all’aereo ed al pilota, ci fugarono gli ultimi dubbi e salimmo sul velivolo nell’ordine deciso dal pilota, per ottimizzare la distribuzione dei pesi.
Gli ultimi veloci controlli al carburante ed all’aereo, il pilota sale ed inizia a rullare sulla pista erbosa della savana.
Mentre prendevamo velocità per il decollo, Carmelo, con una battuta delle sue, esorcizzò la tensione, dicendo:” Ahò, stò talmente a strigne che…nun m’entrerebbe nemmeno ‘no spillo!”.
Ci siamo sollevati e portati alla quota di navigazione ed a questo punto lo spettacolo che ci si aprì, tutt’intorno a noi, malgrado qualche nuvola, ci prese così tanto che dimenticammo tutte le preoccupazioni della partenza.
Il territorio, visto dall’alto, mostrava tutta la sua bellezza e vastità. Sorvolammo sia la savana che la foresta pluviale, interrotte, dai già menzionati tepui, che si stagliavano come immensi monoliti rocciosi, al di sopra di esse. Sotto di noi, scorrevano numerosi fiumi di tutte le dimensioni, che fendevano la fittissima foresta, creando un groviglio di vie d’acqua che s’intrecciano fra di loro, fino a confluire nei maestosi fiumi come il Caronì che a sua volta si getta nell’Orinoco.
Tante e tanto intense sono le precipitazioni in questa zona equatoriale da originare un bacino idrogeologico, dalle dimensioni uniche.
La foresta pluviale era così fitta e compatta da far ritenere che qualsiasi oggetto, avessi fatto cadere, non avrebbe mai raggiunto il terreno.
Mentre ci avvicinavamo al tepui Auyan, dove c’è il salto Angel, vidi sotto di noi, una piccola radura, in mezzo alla foresta, dove c’era, occupandola quasi tutta, un piccolo aereo, un po’ più grande del nostro, perché era un bimotore. All’apparenza sembrava integro, ma, certamente, viste le dimensioni della radura, non vi era certo atterrato.
Dal momento che me ne accorsi solo io, evitai di parlarne, per non impressionare ulteriormente gli amici.
Ci volle quasi un’ora di volo per giungere al tepui Auyan e per infilarci nella gola, dalla cui parete ovest, veniva giù la celeberrima cascata.
Non era il periodo delle piogge e, quindi, la sua portata era ridotta al minimo, ma ammirarla, passandole davanti a circa 2500 metri d’altezza, con qualche nuvola che s’inframmezzava è stato uno spettacolo emozionante. Facemmo più di un’evoluzione nel canyon, con qualche brivido, perché tutti potessero vederla al meglio e più di una volta.
Poi facemmo la rotta di ritorno che ci avrebbe portato, alla posada di Chivatòn, dove ci saremmo ricongiunti con Julio e Luisa, lì tornati con il Toyota.
Nel percorso di ritorno, il pilota attira la nostra attenzione sull’aereo che avevo visto all’andata…dicendo che aveva avuto un’avaria ed era stato costretto ad un atterraggio d’emergenza, però passeggeri e pilota si erano tutti salvati ( meno male!). Non avevo capito come aveva fatto ad atterrare in mezzo alla foresta senza danneggiarsi, ma… evitai di chiederglielo, per la tranquillità di tutti.
Atterrammo sulla savana, vicino al nostro “albergo” e, con grande soddisfazione per lo spettacolo a cui avevamo assistito e per essere di nuovo con i piedi per terra, salutammo il nostro pilota, che riprese il volo e ci salutò con un volo radente sulle nostre teste.
Risalimmo sulla Toyota e ci recammo al fiume Aponwao, dove avremmo fatto la sosta per il pranzo in un ristorante di un piccolo villaggio. Successivamente con delle canoe ci avrebbero portati a vedere la cascata Chinak-merù (merù è il nome con cui gli indios chiamano le cascate).
Con due canoe a motore, guidate dagli indios, ci siamo avviati verso la cascata. Durante la navigazione che si svolgeva sul fiume contornato da una fitta vegetazione, uno degli indios richiama l’attenzione dell’altro che era al timone, il quale vira immediatamente e torna indietro di pochi metri ad andatura molto lenta. Il giovane indio aveva avvistato un anaconda appollaiato su un grosso ramo sporgente sull’acqua e ce lo indicò, spiegandoci l’eccezionalità dell’avvistamento, del tutto inusuale in quella zona del parco. Lui stesso, che aveva ventidue anni, non ne aveva mai visto uno in quei luoghi. Ci accostammo abbastanza vicino da vederlo bene: era un esemplare ancor giovane, di circa tre metri o poco più, ma pur sempre un animale di tutto rispetto, il quale, non si scompose per nulla, per la nostra presenza e rimase placido sul ramo a crogiolarsi al sole.
Nella zona del parco, dove la savana è preponderante, non vi sono molti animali. Pochissimi quelli a quattro zampe, per lo più il formichiere gigante, che non ha problemi di sopravvivenza, con le migliaia di termitai che si ergono come piccole torri di terra, sopra l’erba della savana. Gli altri animali sono più presenti nelle zone forestali, dove l’habitat è più adatto alla loro sopravvivenza, in particolare per quelli erbivori, che sembrano non gradire la vegetazione della savana.
Nel parco, nel suo complesso anche la presenza faunistica, come quella vegetale è importante e molto varia.
Dopo quest’inciso, torniamo al nostro viaggio.
Percorsi pochi chilometri arrivammo al punto del fiume, oltre il quale non si poteva più procedere, per via della cascata. Accostammo sulla riva sinistra e guidati dall’indio più giovane fummo accompagnati, prima ad ammirare la cascata allo stesso livello in cui il fiume precipitava in basso per oltre cento metri, ma dal quale non si poteva vedere il territorio sottostante, dove l’acqua rovinava ed il fiume Aponwao, riprendeva il suo normale corso.
La guida, quindi, lungo un sentiero ben tracciato e delimitato da una staccionata, dentro la foresta, ci portò fino alla base della cascata.
Appena giunti nella piana alluvionale susseguente la cascata, da cui riprendeva in pieno, il corso del fiume, dopo essersi frammentato in numerosi rivoli, ci si presentò quest’altro spettacolo di quella natura primordiale che caratterizza questo splendido ed unico posto.
La stagione era ancora “secca”, malgrado le precipitazioni non mancassero, ma nulla a che vedere con quelle della “stagione delle piogge”.
La portata della cascata era, quindi, “ridotta” rispetto ad altri periodi dell’anno. Il grosso scalino granitico, infatti, da cui originava era impegnato dall’acqua solo per metà.
Malgrado ciò, l’effetto visivo e sonoro era magnifico ed emozionante. Alla base della cascata, laddove l’acqua si frangeva con più violenza, si sollevava un “polverone” di particelle d’acqua nebulizzata che, anche a distanza di centinaia di metri, ti raggiungeva e ti inumidiva tutto. Per provare l’ebbrezza di questo “spray” naturale, mio figlio ed io ci siamo avvicinati a torso nudo ed immortalati, reciprocamente, in una foto.
Il ragazzo indio, ci fece capire che, poco più avanti, seguendo il corso del fiume, c’erano altri due posti, nascosti nella foresta, degni di essere visitati, anche se per raggiungerli si sarebbe dovuto camminare per più di un’ora.
Accogliemmo con piacere il suggerimento del ragazzo e c’incamminammo, sotto un sole, degno del posto e dell’ora (erano circa le due pomeridiane).
A metà strada, parte del gruppo fu costretto a tornare indietro, sia per un leggero colpo di calore di Mirella, sia per le scarpe poco adatte al luogo di Patrizia.
Luisa, Massimo, la guida ed io procedemmo imperterriti verso la località che il nostro indio, molto poeticamente diceva chiamarsi “il pozzo dell’amore”, perché meta delle coppie indios innamorate.
Dopo circa mezz’ora, camminando prima allo scoperto e poi sempre più dentro la foresta, arrivammo in questo luogo che si dimostrò superiore alle aspettative. Appena aggirati gli ultimi alberi del sentiero che finiva sul limitare di questo posto, ci apparve uno specchio d’acqua, quasi circolare di una quindicina di metri di diametro, in cui, quasi di fronte a noi si riversava un piccola cascata di meno di dieci metri. Il tutto appena illuminato dai pochi raggi di sole che riuscivano a penetrare la fitta vegetazione.
Era, veramente un luogo da sogno, sembrava un’ambientazione cinematografica, ma, invece, era reale!
L’acqua, tanto per cambiare, era fredda, ma il posto così bello ed invitante, che Massimo, dotato di costume e la guida si sono immersi in questa piscina naturale ed hanno anche fatto “l’idromassaggio”, sotto la cascata, suscitando l’invidia di Luisa e mia che non eravamo attrezzati per l’evenienza, a meno che non ci fossimo completamente denudati, ma non era questo il caso.
Ci accontentammo di bagnarci il viso e ci soffermammo per diverso tempo a godere del posto, senza avere il coraggio di prendere l’iniziativa di raggiungere gli altri, che ci attendevano al sommo della cascata Chinak.
Ahimè, con dispiacere, ripercorremmo in senso inverso il sentiero e ci ricongiungemmo, verso le quattro, con gli altri.
Nel ritornare alle canoe, ci fermammo dinnanzi ad una piccola baracca, dove gli indios vendevano piccoli manufatti artigianali, tra i quali una canna di circa cinquanta centimetri, colorata con segni tribali e chiusa da entrambi i lati, al cui interno ci sono numerosi sassolini che, se fatti scorrere delicatamente, riproducono il rumore delle cascate con un effetto sonoro…rilassante. Intorno alla baracca si aggiravano dei bei bambini dai visi molto dolci, con grandi occhi scuri, che ci guardavano tra il divertito ed l’incuriosito, con lo stesso sguardo che hanno i bambini in tutto il mondo ed a tutte le latitudini.
Quando si cresce, perdiamo quegli sguardi e le cose si complicano molto.
Diedi loro un biglietto di mille Bolìvares, ma non capivano e cercavano spiegazioni dai genitori o dai parenti, tanto la cosa gli apparve strana e buffa. Per noi era solo mezzo euro, per loro… molto di più!
Tornammo a Chivatòn e dopo aver mangiato nella “sala da Pranzo”, tutta aperta, con due giacchetti indosso, perché faceva più freddo della sera prima, ci rilassammo sotto il patio e le stelle sorseggiando del buon rum, che aveva portato Julio, per scaldarci, compresa Patrizia che è praticamente astemia!
Il giorno dopo, lasciammo il “cinque stelle” e proseguimmo verso il sud, con l’intenzione di arrivare sino a Santa Elena de Uairen, cittadina a 15 km dal confine brasiliano. Non avemmo il tempo disponibile per poterci arrivare, dopo aver effettuato le tappe intermedie.
Ci fermammo all’albergo del villaggio delle Rapidos de Kamoiràn, che essendo contiguo alla strada asfaltata, aveva la corrente elettrica, le camere con la porta al bagno ed un discreto arredo. Carmelo e Mirella avrebbero potuto fare il caffè, l’indomani mattina, con la moka elettrica e già questa fu una considerazione rassicurante.
Andammo ad ammirare le rapide, proprio dietro l’albergo. Luogo molto frequentato anche dagli abitanti del luogo per i pic-nic.
Le rocce su cui scorreva l’acqua, formando delle rapide e dei piccoli salti, avevano un’insolita colorazione rossa, dovuto all’alto contenuto di ferro disciolto in essa. Anche qui, in una roggia, ci fu un tentativo di bagnarsi, ma l’acqua era tanto fredda, che anche mio figlio, desistette e più di un pediluvio non si riuscì a fare.
Nel villaggio vicino, nelle capanne dove gli indios vendevano i loro oggetti artigianali, incontrammo un donna india di 45 anni che aveva 22 figli, di cui 16 con lo stesso uomo. Noi italiani, che siamo più “civili”, ne facciamo uno solo, si e no, abbiamo altre cose da fare, non stiamo nel paradiso della Sabana, ma nell’”inferno” metropolitano. Volete paragonare?
Altra visita alla Kama merù, dove ci siamo dovuti accontentare di ammirare la cascata dal suo livello di caduta. Qui non era possibile scendere alla base.
Pranzo all’aperto vicino alle rapide di un altro fiume, dove oltre alla carme arrosto, Julio fece portare dal ristoratore un barattolo di vetro, contenente un cibo in una specie di salamoia.
Incuriositi chiedemmo spiegazioni su cosa si trattasse.
Erano formiche. Sì! Formiche di una specie molto grande, dotate di una grande testa, che si mangiavano, prendendole con due dita e facendole scorrere in mezzo ai denti, fino ad incontrare la testa che si schiacciava e si suggeva.
Io che assaggio di tutto, per principio, salvo verificare che non mi piace, quella volta non ce la feci proprio a provare e solo il ricordo del rumore che facevano le teste delle formiche nelle bocche di chi le mangiava, mio figlio compreso, mi fa ancora venire i brividi.
Dopo questo “gustoso e sapido” intermezzo gastronomico, riprendemmo il nostro giro e Julio ci portò a vedere altre tre cascate.
Durante una di queste trasferte, mentre percorrevamo la strada statale, Julio si fermò, senza preavviso, scese dal Toyota e andò sulla savana, dove cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa. Noi attendemmo pazienti. Dopo qualche minuto egli ritornò alla macchina e rivolgendosi alle signore, consegnò loro, una a testa, un minuscolo fiore. Esso era uno dei più piccoli esemplari di orchidea che cresce in Venezuela e, facendo uno strappo alle regole del parco, le aveva colte in segno di omaggio alle signore. Questo dono fu molto gradito.
Come ultimo posto prima di tornare in albergo Julio ci portò in un punto elevato e panoramico, dove tutte le guide del parco portavano i turisti, che venivano invitati a comporre dei piccoli totem con le pietre del luogo, in segno bene augurante.
Ognuno di noi eresse il suo totem.
Dopo quest’operazione mi soffermai a contemplare il panorama che avevo tutt’intorno a me.
A perdita d’occhio e di sensi, ovunque mi girassi, c’erano distese immense di savana e foreste nonché i maestosi “tepui” che si distaccavano al di sopra di esse.
Il pensiero di vedere un territorio, che, nella sua configurazione attuale, ha milioni di anni di età, mi provocò un’emozione soffocante e talmente coinvolgente da indurmi a piangere.
Mio Dio!
Di fronte a me c’era un luogo che non ha mai subito le trasformazioni e gli sconvolgimenti che l’uomo ha saputo fare in tutto il resto della terra.
Era un po’ come ritrovarsi nell’Eden perduto.
Il giorno successivo, dopo aver preso il caffè, grazie alla moka di Mirella e aver fatto un’abbondante colazione in “albergo”, risalimmo sul Toyota per percorrere a ritroso i 500 km fino a Puerto Ordaz e di lì in aereo fino a Caracas.
Si rientrava nella “civiltà”!
I giorni successivi avremmo completato le vacanze venezuelane con un soggiorno all’arcipelago de Los Roques ed a Caracas.
Ma questi sono episodi di una vacanza “normale”.
Il parco della Gran Sabana è tutta un’altra cosa.