Viaggio a Monaco e Berlino, marzo 1966

Per la serie antiche e scarse memorie: Testimonianza in prima persona di un evento storico unico.

Anno 1966.

Frequentavo l’università, facoltà di Scienze Politiche, prolungamento ideale del liceo, nella quale potevi approfondire la storia, l’economia e il diritto. Un corso di studi che ben si confaceva alle mie velleità di tentare la strada del giornalismo.

Purtroppo, erano solo velleità, perché il mio carattere schivo e timido e la mia incapacità a mettermi in competizione con gli altri, erano i più grandi ostacoli che si frapponevano a questo mio vagheggiato sogno.

Questa, però, è soltanto una premessa per introdurre la narrazione del ricordo e delle emozioni di quel viaggio, che feci grazie agli accordi dell’Università della Sapienza con l’omologa istituzione berlinese e con il patrocinio del Senato di Berlino.

Non rispondemmo numerosi all’invito ad iscriversi al viaggio, che in gran parte era finanziato dagli enti promotori.

Eravamo un gruppo di circa quaranta persone, d’ambo i sessi e iscritti a diversi anni del corso di laurea.

Io, ero al terzo anno, ma indietro con gli esami, per via di un blocco psicologico causatomi da un’inattesa, quanto giusta bocciatura all’esame di Diritto Privato.

Il gruppo variamente assortito, si ritrovò il giorno 10 marzo, alla stazione Termini, per intraprendere questo viaggio socio-culturale-politico, che sarebbe durato fino al 22 marzo.

Facemmo una breve tappa a Monaco di Baviera, nell’attesa dell’altro treno che ci avrebbe portato a Berlino.

Avemmo solo il tempo di vedere il parco del castello di Nymphenburg e di fare un piccolo giro intorno alla stazione ferroviaria. Una sosta più lunga era prevista al ritorno.

Nel frattempo, costatammo che avevamo lasciato la primavera in Italia ed eravamo tornati verso l’inverno. C’eravamo preparati alla differenza di clima, portando i cappotti e qualche maglia più pesante, ma, come vedremo in seguito, non sarebbe stato sufficiente.

Salimmo nel treno che ci avrebbe portato a Berlino, consci di entrare nel vivo del viaggio.

Dopo poche ore il treno è in prossimità del confine con la DDR, ed esattamente al posto di confine di Griebnitzsee.

Il treno si fermò. Oltre i finestrini, si scorgeva una campagna solitaria, immersa in un grigiore invernale e delle torri di controllo, che spuntavano dalla nebbia, con le immancabili numerose recinzioni di filo spinato. Sul convoglio salirono numerosi Vopos, la famigerata polizia della Germania Est. Quando i controlli sui nostri passaporti e di tutti gli altri passeggeri finirono, potemmo proseguire il viaggio, tirando un sospiro di sollievo, non comprendendo il perché di queste ispezioni, poiché il treno non si sarebbe mai fermato, nel territorio della Germania Est, ma avrebbe proseguito fino a Berlino Ovest. Forse volevano sincerarsi che nessuno dei passeggeri, approfittando di un rallentamento, magari forzato, avesse l’ardire d’infiltrarsi nel loro paese.

Questo fu già un primo significativo anticipo di quello che avremmo visto nei prossimi giorni.

Giungemmo finalmente a Berlino Ovest, dove ci attendevano un gruppo di studenti dell’università di Berlino che ci avrebbero accompagnato e assistito per tutto il tempo del nostro soggiorno berlinese.

Ci condussero in un pensionato di monache che, fortunatamente, erano molto più emancipate di quelle nostrane, anche se ci hanno rigidamente diviso, fra maschi e femmine, ma senza isolarci. La loro ospitalità fu discreta ed efficiente, come le colazioni a base d’uova e wurstel di tutti i tipi, insieme al burro, alla marmellata ed a biscotti vari.

Dal giorno dopo cominciammo ad avere molti contatti interessanti con gli esponenti del Senato di Berlino, con le organizzazioni studentesche e con alcune realtà sociali ed economiche della città, che, all’epoca, ricordo per coloro che ne hanno, forse, solo sentito parlare, rappresentava una realtà geopolitica unica al mondo. Il suo status era frutto degli accordi fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, che sulla scia degli accordi di Jalta, si erano spartiti la città, in quattro settori, ognuno dei quali amministrato da una delle potenze vincitrici.

Fra alterne vicende e la grave crisi del 1948, con l’isolamento terrestre creato dai russi alla città, per presunte infrazioni agli accordi di Potsdam, superata con il famoso “ponte aereo” che approvvigionò la città per mesi, questa situazione si protrasse fino al 1961.

Il 15 agosto di quell’anno, come mi raccontò, non senza commozione uno studente berlinese, con cui mi sono frequentato più spesso e di cui, purtroppo, non ricordo il nome, le autorità della Germania comunista, decisero, senza alcun preavviso, di isolare il proprio settore dagli altri e per farlo nel più breve tempo possibile, iniziarono a sospingere, con i carri armati, mezzi blindati e quant’altro, tutti quelli che gli si presentavano dinnanzi, verso gli altri settori. Senza nessuna possibilità alternativa.

Fu così che molte famiglie si trovarono separate, da un momento all’altro, senza conoscere il destino dei propri cari, per mesi ed anche per anni.

Fu poi srotolato il filo spinato, lungo tutta la linea di demarcazione, fra il settore russo e quelli francese, inglese e americano. Filo che poi, si trasformò in palizzata lignea.

Successivamente, per evitare anche gli sguardi e i saluti che i berlinesi separati tentavano di scambiarsi dalle pedane erette nel settore occidentale, le palizzate crebbero in altezza, ma di pari passo, crescevano anche le pedane.

L’istituzione di una zona di nessuno, molto ampia, e la muratura delle finestre dei palazzi, ormai inabitati, dalle quali qualcuno tentò, rischiando la vita, di gettarsi oltre l’improvvisato confine e la costruzione del famigerato “muro”, rese impossibile anche questi semplici gesti d’umanità.

Mentre il mio amico tedesco mi raccontava quello che era avvenuto cinque anni prima, provai una gran rabbia, non riuscendo minimamente a comprendere come la stupidità dell’uomo e le differenze politiche potessero arrivare a compiere un atto così disumano, senza possibilità di riparare, nei giorni seguenti, i suoi effetti più drammatici, quali quelli di aver disgregato centinaia di famiglie per anni! Nel giro di pochi minuti, tante persone hanno perso i figli, le mogli, i mariti, i genitori, gli amici, le proprie radici…una cosa raccapricciante.

Ci vollero altri ventitré anni per sanare definitivamente la questione.

La situazione che trovammo era questa. Il senato di Berlino, promuoveva queste iniziative anche per far conoscere il più possibile a coloro che avrebbero dovuto formare la classe dirigente dei paesi di provenienza, l’assurdità di questa condizione della città. La nostra visita prevedeva anche incontri e avvenimenti meno seri, per fortuna.

Uno di questi mi è rimasto particolarmente impresso.

I nostri colleghi berlinesi, nel programma avevano incluso anche la visita ad un grande stabilimento di produzione della birra.

Dopo aver percorso tutto l’iter produttivo della bionda bevanda, siamo stati ospitati nella grande sala della mensa aziendale, dove, nemmeno a dirlo, ci offrirono panini con wurstel e crauti e boccali di birra a volontà, che ognuno di noi poteva riempire, a propria discrezione, andando ad attingere dai rubinetti a spina, siti sul bancone della mensa.

Inutile dire che la qualità della birra era ottima, essa scendeva giù che era una meraviglia. Presto i panini finirono, ma la birra, no! Il clima della riunione si era fatto particolarmente euforico, quasi tutti, avevamo già superato i cinque boccali e ancora ne ingurgitavamo in preda ad un’allegria non più contenibile. Ricordo con simpatia, che il direttore della fabbrica, ormai tutto rosso in viso, salì in piedi sul lungo tavolo e, in nostro onore, iniziò a cantare a squarciagola, ”O sole mio”.

Nel frattempo la birra iniziava a manifestare anche i suoi effetti collaterali, e il via vai verso i bagni situati di fronte all’entrata, in posizione strategica, divenne molto intenso. Durante una mia visita al bagno, udii, insieme con altri amici, provenire da quello riservato alle donne, una serie di risate molto squillanti, quasi isteriche. Ci siamo affacciati per vedere cosa succedesse e ci apparve una scena comicissima, una delle nostre amiche, a mala pena sostenuta da altre due, era in preda ad un riso irrefrenabile, si era ubriacata per aver bevuto tre boccali di birra. Si era fatta trascinare dal clima festoso, sottovalutando le conseguenze, che con la birra sono improvvise e forti. A furia di piccoli schiaffi e di docce d’acqua fredda, riuscimmo a calmarla.

La visita si concluse. Un’ultima “scappata” al bagno e poi, c’incamminammo per tornare al pensionato. Io avevo bevuto otto boccali di birra e stavo bene. Non ne avrei mai più bevuta così tanta.

Il mio amico Mario, la cui amicizia risaliva ai tempi del liceo e dura tuttora, non ritenne di fare anch’egli una “visita” al bagno, malgrado avesse bevuto più di me. Però una volta saliti sulla metropolitana, dopo un paio di fermate, cominciò a manifestare evidenti segni di sofferenza (anche questo è tipico della birra, lo stimolo ti prende all’improvviso) e malgrado mancassero, ormai, solo tre fermate alla nostra destinazione, alla prima che facemmo, senza alcun preavviso, schizzò letteralmente fuori della carrozza e si perse tra la folla correndo. Solo più tardi, quando raggiunse da solo il pensionato, sapemmo che in preda a dolori lancinanti era uscito in superficie, si era guardato intorno e avvistato un bar, corse verso esso e in tedesco (è sempre stato un poliglotta) chiese dove fosse il bagno, corse ancor di più verso la porta della salvezza e…quando ne uscì, si accorse di avere tutti gli occhi, degli avventori e dei proprietari, puntati su di lui. Non nascondendo l’imbarazzo, salutò e ci raggiunse.

Venne, finalmente, il giorno in cui ci saremmo recati nella parte est di Berlino.

Ci avviammo in gruppo verso il più famoso punto di transito, fra i settori ovest ed est: il check point Charlie, quello americano, che era anche il più vicino al nostro pensionato.

Questi era uno stretto corridoio stradale che, dalla parte americana, comprendeva anche un piccolo museo, dove erano raccolte varie testimonianze fotografiche e gli oggetti usati dai berlinesi dell’est per tentare la fuga all’ovest. Proseguendo in fila indiana, lungo un percorso stabilito, andammo verso il fabbricato delle vopos, che controllarono meticolosamente sia noi, che i nostri documenti, per poi indirizzarci all’ufficio “cambi”, dove eravamo “costretti” a cambiare i marchi occidentali con quelli orientali, alla “pari” (contro un cambio ufficioso ben più favorevole) e con un minimo di cinque.

Superate tutte queste forche caudine, ci avviammo, in ordine sparso, a visitare il settore est. Il nostro permesso, tra l’altro, riservato solo ai cittadini stranieri e a quelli tedeschi non residenti a Berlino ovest, era valido fino alle ore ventiquattro dello stesso giorno.

Una cosa colpì subito tutti noi, oltre all’evidente differenza fra il ritmo di vita, il traffico, la quantità e qualità dei negozi: il grigiore dei luoghi e la tristezza che avvolgeva le poche persone che incontrammo, che difficilmente ci guardavano in volto, preferendo scorrere, racchiusi nei loro cappotti e celati dai loro colbacchi, senza degnarci d’alcuna attenzione, anche se, come tutti gli studenti in gita, non passavamo inosservati!

Ancora oggi, guardando le poche fotografie, in bianco e nero, di quel viaggio – che conservo gelosamente insieme a migliaia di altre, nelle quali ho fissato i momenti della mia vita, che altrimenti si sarebbero persi nei meandri del cervello – sento di nuovo, quelle impressioni che provai allora. Ho foto della Marx/Engels platz, dell’Unter der Linden, dell’Alexander platz, della Rathaus, dove gli unici passanti, se inquadrati, sono gli amici del gruppo, quasi nessuna auto, il tutto enfatizzato dal grigio plumbeo della città e del cielo.

Un po’ d’animazione, la trovammo davanti e dentro i grandi magazzini, siti nell’Alexandr Platz, dove tutti quanti noi cercammo di spendere i cinque marchi che ci avevano estorto, ben sapendo che se li avessimo riportati indietro, avremmo dovuto conservarli solo per ricordo. Fu un’impresa difficile, perché quei grandi magazzini avevano beni di consumo che, per noi occidentali, non erano per niente attraenti. Io acquistai due dischi di musica classica, poi tentai di prendere, da un distributore automatico, quello che aveva l’aspetto di un dolcetto, salvo poi accorgermi, appena morso, che non si trattava di crema ma di un’orribile salsa tartara!

Ci avviamo verso la Porta di Brandeburgo per ammirarla anche dal lato opposto a quello già visto nel settore ovest, percorrendo il gran viale Unter der Linden, che attraversava entrambi i settori della città, con al centro la Porta di Brandeburgo. Questo era il luogo dove avvenivano le sfilate militari del terzo Reich, davanti ai gerarchi nazisti e al popolo tedesco.

Su questo viale notammo che c’era un salone di vendita d’auto, incuriositi ci avvicinammo. Si trattava d’auto russe, i cui prezzi, con un calcolo a braccio, corrispondevano agli stipendi di molti anni dei lavoratori dell’est!

Ci fermammo anche in una libreria, perché una nostra collega, che studiava il tedesco, voleva acquistare un libro. Quando lo trovò, rimanemmo sorpresi da come glielo consegnarono: incartato con la carta da pacchi e legato con lo spago!

Sono solo dettagli…quello che contava era la Repubblica Democratica Socialista.

Tutto ciò confermava le mie obiezioni circa la politica economica in un paese del socialismo reale. Noi stavamo verificando, de visu, se mai ce ne fosse stato bisogno, quali erano le reali differenze fra un paese comunista e un paese a democrazia occidentale.

Si badi bene, noi stavamo appurando che la diversità del tenore di vita e del benessere del popolo, era una diretta conseguenza della politica adottata. Noi confrontavamo, non due nazioni diverse e lontane per storia e cultura, ma la stessa nazione, lo stesso popolo che, trovatosi separato per vicende belliche, aveva avuto uno sviluppo diverso, sebbene la zona est fosse ricca di materie prime e grandi complessi industriali e le capacità umane e culturali fossero le stesse da ambo le parti.

Se le due germanie si sono evolute in maniera così difforme: ricca e tecnologica quell’occidentale, tanto da diventare, nonostante la sconfitta, uno dei paesi fondatori e trainanti dell’unione europea; molto più povera e con meno risorse da distribuire alla sua popolazione, quella dell’est, a parità di condizioni di partenza e di capacità umane, la causa era dovuta solo alla differenza sostanziale degli ordinamenti politici che le sorreggevano.

Questa semplice constatazione, costituiva, per me, la cartina di tornasole per dimostrare, pur con i suoi difetti, la superiorità economica e sociale degli assetti politici occidentali, dove la democrazia era effettiva e nessun potere forte e centralista disponeva su quello che si doveva o non si doveva fare.

Dopo una lunga camminata giungemmo in prossimità della porta di Brandeburgo, fin dove si poteva, perché vicino a essa la fascia di nessuno era molto ampia.

Il gruppo, durante il giorno si era sfaldato, non eravamo più di una diecina.

Quando ci fermammo, sul limitare della zona proibita, ci ponemmo di fronte alla monumentale porta con il viso rivolto verso Berlino ovest. Vedevamo i palazzi moderni, stagliarsi all’orizzonte con le prime luci accese delle insegne pubblicitarie. In particolare ci colpì un’insegna luminosa che scorreva sul tetto di un alto palazzo: era un giornale luminoso, attraverso il quale, trasmettere agli abitanti dell’est le notizie che questi non avrebbero mai letto, sui loro giornali.

Rimanemmo a lungo con lo sguardo fisso verso il settore occidentale, cercando d’immaginare cosa potessero provare i cittadini di Berlino est, nella stessa situazione e quali pensieri si agitassero nelle loro menti: quello dei familiari e amici che non vedevano da anni, l’ingiustizia di dover subire un destino politico e sociale diverso dei loro fratelli tedeschi, distanti solo poche centinaia di metri e chissà quanti altri pensieri ancora.

Era sicuramente difficile, se non impossibile, immedesimarsi in quella tragica situazione.  Tra poche ore, noi saremmo ritornati dall’altra parte…

Mentre quasi tutti noi facevamo queste riflessioni, ci accorgemmo che poco innanzi a noi, spostata sulla sinistra c’era una giovane donna, dai capelli biondi e lunghi, anche lei con il viso rivolto verso Berlino ovest, che piangeva… piangeva copiosamente ma discretamente. Quando si accorse di essere osservata, si allontanò con decisione e con passo svelto.  Noi restammo tutti inebetiti e commossi a nostra volta. Avevamo capito della situazione di Berlino, più in quei pochi minuti, che in tutte le conferenze e testimonianze dei giorni precedenti.

Tornammo verso il check point Charlie, in silenzio. Nessuno aveva più voglia di scherzare, quella sera.

Il giorno dopo, gli amici/studenti di Berlino, organizzarono una festa in un grande locale.

Partecipammo tutti con grande gioia.

Finalmente un avvenimento che stemperava il clima di serietà e di compostezza che gli impegni “ufficiali” e la situazione della città ci aveva imposto nei giorni precedenti.

La festa fu molto divertente e rumorosa, condita con la musica che, da quegli anni in poi, avrebbe accompagnato la mia generazione e le successive. Erano i primi anni dei Beatles, dei Rolling Stones, per non parlare di Elvis e, così via.

Durante quella festa, nonostante la difficoltà della lingua, incontrai una ragazza, una tipica vichinga, bionda, occhi azzurri e di qualche centimetro più alta di me. Con l’ausilio del mio amico Mario riuscii a farci conversazione. Alla fine della serata, lei mi dà un biglietto con un numero di telefono e mi dice di chiamarla il pomeriggio successivo.

Sono stato per un giorno in preda ad un’agitazione perché in conflitto con me stesso: la chiamo o non la chiamo? E poi, quando risponde, se mi risponde lei, come c’intendiamo? Tutti i dubbi e le difficoltà che mi ponevo, erano superabili, se solo avessi avuto un carattere meno timido e mi fossi quindi buttato a tentare il tutto per tutto. In fin dei conti, lei sapeva che non parlavo tedesco…ero io che provavo una soggezione adolescenziale che non riuscivo a vincere.

Com’era prevedibile, non le telefonai.

C’incontrammo il giorno successivo, in un’altra di quelle manifestazioni organizzate per noi, studenti italiani, e mi avvicinai per salutarla. Lei, mi rispose molto freddamente e, anche se non capivo il tedesco, afferrai che mi biasimava per non averla chiamata e che mi diceva che avevo perso… un’occasione.

Ci rimasi così male, che, a distanza di anni, il solo ricordo di quest’episodio, ancora mi brucia.

Ero proprio un grande stupido!

Si avvicinava il giorno del rientro a Roma, gli impegni “ufficiali” erano quasi terminati e avevamo tutta un’intera giornata a nostra disposizione, da poter gestire a nostro piacimento.

Mario ed io, decidemmo di dedicarla ad un’altra visita al settore est, ma questa volta avremmo utilizzato quasi tutto il giorno previsto dal permesso.

Fu così che, oltre alla parte più famosa di Berlino est, visitammo anche la periferia ed il borgo di Koepenig, appena fuori Berlino est, dove c’era un castello con un bel parco molto curato. La struttura architettonica e urbanistica di questa cittadina era molto più rappresentativa dell’ambiente urbano tedesco. Piccole case inserite nel verde, modesti ma decorosi palazzi in pietra scura, chiese con campanili alti e svettanti verso il plumbeo cielo. Anche qui, però, si percepiva nell’aria e nelle strade, anch’esse pressoché deserte, una sensazione di mancanza di vita, di gioia di spensieratezza. In poche parole, anche un paesino come Koepenig, era tetro e funereo.

Salimmo sul tram e gli unici passeggeri eravamo noi. Pranzammo in un ristorante, ampio e decoroso, con cameriere in grembiule nero e crestina bianca, gustando un buon gulasch, ma sempre malinconicamente da soli, non c’erano altri avventori…

Ritornammo ad ovest, con un’altra esperienza in più. Non avevamo fatto solo una visita limitata e frettolosa a Berlino est, ma avevamo cercato di cogliere anche altri aspetti della Germania est, più lontani dalle mete consuete, frequentate dai veloci turisti. Era pur sempre un’esperienza limitata, ma non c’era concesso di più e il nostro soggiorno nella parte est, è stato il più lungo e ampio di tutti gli altri colleghi.

Venne il giorno della partenza, ci salutammo con sincera commozione dai nostri amici tedeschi che ci avevano assistito per tutto il nostro soggiorno, salutai il mio più assiduo amico tedesco e la sua Citroen 2cv e salii, insieme a tutti gli altri, sul treno che ci avrebbe condotto a Monaco, da dove un altro treno, diverse ore dopo il nostro arrivo, ci avrebbe riportato a Roma.

La lunga sosta a Monaco di Baviera, prevista, ci offriva la possibilità di aggiungere alla nostra esperienza berlinese anche una visita al centro della città, o, in alternativa, per chi lo volesse, una visita a Dachau, al campo di concentramento e di sterminio, tristemente noto.

Il gruppo si divise, quasi equamente, per le due opzioni.

Mario ed io e circa altri venti decidemmo di andare a Dachau, che distava poco più di venti chilometri da Monaco e ci si arrivava con un treno locale. Dalla stazione avremmo proseguito verso il campo con un autobus. Bene! Tutto era chiaro, il tempo necessario per andare, visitare il campo, tornare con il treno alla stazione di Monaco era più che sufficiente, ma… non avevamo fatto i conti con il tempo…atmosferico!

Già alla partenza da Berlino, il tempo oltre ad essere rigidamente invernale, minacciava di peggiorare e durante il viaggio in treno, avevamo visto scendere dal cielo qualche fiocco di neve. Anche la situazione meteorologica, a Monaco, non era diversa da quella lasciata a Berlino: il cielo era bianco e compatto e la temperatura rigida, ma per il momento nessuna precipitazione nevosa.

Poco più di mezz’ora per arrivare alla stazione di Dachau, un altro quarto d’ora, o poco più, per prendere l’autobus e in un’ora circa ci trovammo all’interno del museo annesso al campo di concentramento. Nel frattempo la neve aveva fatto la sua comparsa, ma non sembrava in grado d’impensierirci.

Visitammo il museo con le foto degli orrori nazisti, i resti degli abiti degli internati, le casacche che indossavano, gli oggetti d’uso quotidiano, il tutto nel più assoluto silenzio e sempre più annichiliti dalla visione di tanto orrore. Uscimmo dal museo per visitare le baracche e in quell’occasione cominciammo a comprendere che la neve, da un modesto evento meteorologico si era trasformata in una vera e propria bufera, anche se i fiocchi invece d’essere grandi e leggeri erano piccoli e ghiacciati, quasi come grandine e ti s’infilavano dappertutto, superando agilmente il nostro abbigliamento inadeguato a una situazione così inattesa. Un riparo in più ci venne dalle feluche universitarie, per chi se l’era portata ed io, ero uno di questi.

Concludemmo alla svelta la visita alle baracche e ai forni crematori, altro luogo sconvolgente, ben illustrato da tutte le foto a commento del posto, di cui non trovo parole adatte per illustrarle. Conservo nell’album un’immagine di una foto molto grande, di una fossa in cui giacciono, come cenci vecchi, centinaia di corpi ammassati, uno sull’altro…

La nostra condizione psicologica, dopo una visita del genere, era già molto provata, ad essa ora si aggiungeva il panico di non potere raggiungere in tempo la stazione di Dachau e, di conseguenza, la coincidenza con il treno per Roma.

Uno dei custodi del museo ci tranquillizzò, dicendoci che l’autobus sarebbe passato ugualmente, nonostante il tempo.

Ci recammo alla fermata che ovviamente non aveva alcun riparo e ci ponemmo in fiduciosa attesa dell’autobus, riparandoci dietro i pochi ombrelli che avevamo e i cappelli universitari.

Trascorsero dieci minuti, poi altri dieci e dell’autobus, nemmeno il rumore. L’orario del treno che ci avrebbe riportato a Monaco si avvicinava inesorabilmente.

A quel punto s’impose una decisione estrema: ognuno avrebbe cercato di raggiungere la stazione con qualsiasi mezzo, anche a piedi, se necessario. Cominciammo così ad avviarci lungo la strada e nel frattempo a chiedere un passaggio alle auto che transitavano. In fondo non eravamo tanti, bastavano cinque sei auto che ci avessero caricato e portato al paese, ed era fatta!

Non avevamo fatto i conti con l’”ospitalità teutonica”. Diverse auto targate DCH (Dachau), infatti, rallentarono, facendo l’atto di fermarsi, salvo che, appena giunte dinnanzi a noi, i rispettivi guidatori, campioni d’ospitalità e di solidarietà, ci facevano inequivocabili cenni di andare verso il campo di sterminio. Nessuno di questi provò a fermarsi, perché in questo caso, incazzati com’eravamo, avremmo trascorso il resto della giornata in un commissariato tedesco.

Mario ed io fummo presi da un furgoncino che trasportava latte, targato Francoforte, che ci lasciò a un chilometro dalla stazione. Percorremmo questa distanza, con l’ombrello teso in avanti per pararci il più possibile dalla fitta neve gelata, che ci s’insinuava anche nel collo.

Riuscimmo a salire sul treno, dove parte di noi era già arrivata, perché alcuni automobilisti, impietositisi, li avevano portati fino all’entrata della stazione.

Ci togliemmo le scarpe e i calzini e li mettemmo ad asciugare sulle feritoie dei termosifoni.

Gli ultimi giunsero appena in tempo.

Eravamo tutti. Infreddoliti, incazzati contro quei luridi neonazisti, angustiati per quello che avevamo visto, ma, tutti noi superammo quell’ora di tregenda imprevista ma, stranamente, in sintonia con il luogo visitato.

La mattina dopo, arrivammo a Roma.

 

 

 

 

 

 

 

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