Il libro ha ottenuto un diploma di merito nella V edizione del premio “Albero Andronico ” di Roma, il 30 marzo 2012.
Si è classificato terzo nella sezione dei libri editi nella XVI edizione del concorso letterario dell’associazione clturale “Emily Dickinson” di Napoli, gennaio 2013.
LA SCUOLA DI NAPOLI
Sommario
IL BICCHIERE.. 3
LA PIETRA FILOSOFALE.. 6
L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA.. 13
IL TERNO A LOTTO.. 17
LA CHIAVE DEL PRINCIPE.. 27
‘A MUNNEZZA.. 46
LA GLOBALIZZAZIONE.. 50
LA CULLA DELLA FILOSOFIA.. 55
I PARADOSSI DI ZENONE.. 59
L’AMMORE.. 64
IL BICCHIERE
Napoli, sono circa le cinque del pomeriggio.
Ci troviamo in uno dei vicoli del centro storico popolare, dove insieme a molti “bassi” e a qualche piccolo antico negozietto, c’è una pizzeria, non più grande di cinquanta mq, tanto modesta ed al limite della decenza igienica, quanto nota fra i popolani per la qualità e la bontà delle sue pizze al forno e delle sue pizze fritte.
Nel locale sono ammassati, in un ordine approssimativo, una ventina di tavolini con il piano di marmo bianco, contornati da vecchie sedie di ferro verniciate di nero. Tavoli e sedie, recano i segni del passaggio di migliaia e migliaia di persone che, su di essi, hanno consumato altrettante pizze, nel corso di quasi un secolo d’attività.
In un angolo, da cui si vede tutta la sala, c’è un altrettanto antico forno a legna, che profuma di pomodoro e mozzarella anche quando è spento, con annesso un bancone dove il pizzaiolo stende e condisce le gustose ruote di pasta cresciuta, prima d’infornarle.
Completano l’essenziale arredamento, alcuni armadi sbilenchi, in cui sono custodite le stoviglie, le posate ed i bicchieri. Com’è d’uso, in questo genere di locali, la carta sostituisce le tovaglie e le salviette.
Intorno ad uno di questi tavolini, sono sedute due persone di circa cinquanta anni. Dinnanzi a loro una bottiglia di birra fresca e due bicchieri.
Hanno l’aria rilassata e svogliata.
Sono Gennaro Platone e Ciro Aristotele.
Il primo, Gennaro, quello che ha l’aria svogliata, è un disoccupato organico, che non ha un vero e proprio mestiere, ma che è un gran maestro dell’arte di arrangiarsi.
Egli, quando gli va, si arrabatta a fare un po’ di tutto, per integrare una piccola pensione d’invalidità, ma per quel tanto che basta alla sua sopravvivenza. Gennaro, che è senza vincoli familiari, ha scelto di anteporre il desiderio di vivere a modo suo e secondo gli umori del momento, all’eventuale sicurezza di un’occupazione stabile e continua, qualunque essa fosse.
Il secondo, Ciro, quello con l’aria rilassata di chi sta gustando un meritato intervallo tra i due impegni quotidiani, del pranzo e della cena, è il pizzaiolo, nonché il gestore del locale. Ha iniziato fin da piccolo a seguire le orme del padre, che, a sua volta, aveva seguito quelle del nonno e, così di seguito, fino alla quinta generazione, per quanto si ricordava.
Il caso ha fatto sì che si conoscessero e frequentassero fin da ragazzi, anche per quello strambo connubio che si era creato fra le loro due famiglie, che abitavano in due “bassi” adiacenti, a causa dei loro importanti cognomi.
I genitori, infatti, si compiacevano di raccontar loro, quand’erano piccoli, com’era avvenuta quella conoscenza, poi trasformatasi in amicizia, evento comune e frequente fra gli abitanti dei bassi.
Sia Ciro, sia Gennaro, amano spesso ricordare quel momento tante volte ascoltato, che, pressappoco, si svolse così:
Il padre di Gennaro appena arrivato nel vicolo, com’è usanza ancor oggi, si avvicinò al padre di Ciro, che stava affacciato sulla soglia della pizzeria e gli disse:
“Buongiorno, sono appena venuto ad abitare qui accanto a voi e mi volevo presentare, sono Antonio Platone”.
Il papà di Ciro, dopo un attimo d’esitazione, rispose:
“Che grandissimo piacere, io sono Giuseppe Aristotele”.
Un silenzio gelido e corrucciato, da parte di Antonio, seguì questa presentazione.
Giuseppe afferrò al volo la delicatezza della situazione e anticipò un’eventuale reazione di Antonio:
“No, no, p’ammore e Dio, non stò pazzianne. Io me chiamme proprio accussì, per quant’è vera a Maronna!”
Un’altra breve pausa ed il viso d’Antonio riprese il suo aspetto naturale e scoppiò in una fragorosa risata, seguita immediatamente da quella di Giuseppe. Risero per un tempo lunghissimo, fino alle lacrime, finché Giuseppe, appena riprese fiato, disse:
“Allora, mò into o vico ce ne stanne doje ‘e filosofe”. E giù altre risate.
Ciro e Gennaro, fin da bambini si divertivano a ripetere la macchietta dell’incontro dei genitori, fra loro e davanti ai loro amici, dando il via, alcune volte, a delle vere e proprie piccole sceneggiate.
Ciò, non ha mai impensierito più di tanto i nostri due amici, che hanno continuato a convivere con i loro importanti cognomi con naturalezza ed ironia, tipicamente partenopee.
Ciononostante, molto lentamente, in maniera strisciante, il peso di cotanti nomi, aveva influito sui loro caratteri.
Nei vicoli, erano indicati, con bonomia come:
“E doje filosofe. O filosofe d’a pizza e o filosofe che nun vole fatigà”.
Queste definizioni non nascevano solo perché si chiamavano Platone ed Aristotele, ma anche dal fatto che, nel corso degli anni, si erano compenetrati, a modo loro e con il loro livello culturale, acquisito con letture specifiche e superficiali riguardanti i loro gloriosi “antenati”, come amavano definirli, fino al punto di chiacchierare, discutere e filosofeggiare su tutto. Loro si contrapponevano come le scuole di pensiero dei seguaci dei loro “capostipiti”.
Ciro e Gennaro avevano fatto un po’ il verso a Totò. Lui si era scoperto un’origine nobiliare, loro si erano assimilati ai maestri del pensiero, diventando dispensatori di concetti ed enunciazioni molto filosofiche, suscitando, ovviamente, l’ilarità di chi avesse avuto la sventura di udire i loro strampalati ragionamenti.
Quel giorno, però, diedero vita ad una discussione e a delle riflessioni, che potevano essere definite all’altezza dei loro nomi, in particolare se rapportate al loro grado intellettuale.
Torniamo al tavolino al quale sono seduti ed alla birra ed ai bicchieri che hanno davanti a loro.
Gennaro, prendendo in mano il suo bicchiere, in cui c’era ancora un po’ di birra, comincia a fissarlo attentamente. Ciro lo guarda, senza parlare, aggrottando le ciglia. Gennaro continua a contemplare il bicchiere, lo gira, lo solleva, lo posa, lo riprende, lo guarda di nuovo.
A questo punto, Ciro gli dice:
“Uè Gennà che già te s’imbriacato, cu sole mieza birra?”
“Uè… Gennà! Scetate!”
Gennaro, imperturbabile:
“Ciro, dimme, cumme o vire stu bicchiere”.
“Che dice Gennà, cumm’aggia a veré… è nu bicchiere!”
“Ciro, cumme o solite, nun capisce mai”.
“Uh, Gennà, c’aggia a capì, so tant’anni che te conosche, ma certe vote me pare nu pucurillo fore e cape”.
Gennaro, sempre senza scomporsi:
“Ciro, tu m’hai ricere cumm’è stu bicchiere pe te. Mieze chine o mieze vote”
Ciro, conoscendolo, a quel punto ha capito che stava iniziando una delle loro dispute “filosofiche”. Come il solito accetta la sfida.
“Gennà, pe me è mieze vote. Mo, però, io già o sape, tu m’hai da scassà u cazz, ricenneme, nossignore, o bicchiere è mieze chine”.
“Né, Cire, veche ca cummenze a capì quacche cose. Te s’è scetato o cervielle?”
“Gennà, nun avive niente e meglio c’ha fa mò, che dì ste strunzate?”
“E no, caro Ciro”.
Ciro capisce che la discussione si stava facendo seria, questo succedeva sempre quando Gennaro passava dal dialetto all’italiano. Un filosofo può mai parlare in vernacolo?
“Vedi Ciro, tu hai fatto un’affermazione errata”
“Azz… errata”. Andiamo sul difficile, pensa Ciro.
“Sì, ho fatto un’affermazione errata”. Ripete con sussiego e con qualche moina, Ciro.
“Vedi, mio caro ed ignorante amico, ora tenterò di spiegarti dov’è l’origine del tuo errore”.
“Maronna mia, agge a cagnà a marca e birra!” Dice a mezza bocca Ciro.
Gennaro, ormai perso dietro al suo ragionamento che doveva per forza sviluppare a Ciro, prosegue:
“Seguimi, seguimi bene. Il bicchiere, come tu dovresti sapere, è un contenitore, che nasce per contenere qualche cosa al suo interno, liquida o solida che sia, fin qui ci sei?”
Ciro annuisce svogliatamente, già pensando alle pizze che avrebbe dovuto preparare di lì a qualche ora.
“Allora, se serve per contenere qualche cosa, lo può fare solo quando è vuoto, quindi e qui arriva il lampo di genio di Platone, il bicchiere, quando c’è qualcosa dentro deve essere sempre definito come pieno. Parzialmente pieno, un poco pieno, un quarto pieno, un ottavo pieno, mezzo pieno, appunto, perché appena ci va qualcosa dentro non è più vuoto!”
“Ciro hai capito il concetto. Le discussioni che sempre si fanno sul bicchiere e su come uno lo consideri, quale specchio del suo atteggiamento psicologico, a seconda che dica: mezzo vuoto o mezzo pieno, pessimista, il primo, ottimista, il secondo, sono tutte fesserie. Il bicchiere è sempre pieno o è tutto vuoto, quando non c’è niente”.
“Ciro agge avute na bella penzata, eh?”
Ciro rimane un attimo perplesso, ma, poi, a ben rifletterci comincia a convincersi che il ragionamento di Gennaro ha una sua consistenza logica. Con la rapidità e la brillantezza d’ingegno che i napoletani sfoderano nei momenti più impensabili:
“Né Gennà io già c’ero arrivato a capì sta cose, agge fatte finte e nun capì, pe verè a rò ghive a fernì”.
“Me fa piacere assai, che, pe ‘na vota, simme d’accuorde e simme arrivate alle stesse conclusioni!”
Poi, senza dare il tempo a Gennaro di replicare e per evitare di trascinare oltre la “discussione”, si alza e andando verso il forno, dice all’amico:
“Gennà, cummo o solite, è state nu piacere parlà cun te. Mò però t’agge a salutà che tengo a preparà e pizze pe’ stasera. Ce verimme.”
Gennaro s’avvia malvolentieri verso casa.
È compiaciuto, però, del suo sillogismo (senza sapere che il sillogismo appartiene ad Aristotele) ma nutre qualche dubbio sulla sincerità dell’affermazione di Ciro.
Ma.. come può Platone dubitare di Aristotele?
LA PIETRA FILOSOFALE
Napoli, sono circa le dieci del mattino.
È una soleggiata giornata di maggio che con il suo caldo abbraccio avvolge tutta la città, vicoli compresi e n’esalta la magnificenza, insieme con quella del suo golfo, dove Napoli, con imperturbata bellezza, vi si adagia pigramente, mollemente cullata dal respiro del suo mare.
“Ué, Ciro, stai dinto?” Dice Gennaro con un tono di voce forte, per farsi sentire fin dentro la pizzeria, che aveva la serranda abbassata per metà.
“Sì Gennà, stò cà!”
“E che stai a fa? Oggi nun è o juorne e ripose?”
Ciro, rispondendo sempre da dentro: “Né Gennà, so’ trasite rinto a pizzeria, pe’ veré si tutte ‘e ccose so’ a poste! Aspiette ‘nu pucherille ch’agge fernuto, vuò trasì?” “No Cì, t’aspiette cà, ma fa ampressa ch’a jurnata è bell’assaie! Nun a vulisse passà tutta annanze a pizzeria toja, né!”
“Uè Gennà, cumme si scucciante, t’agge ditto ch’agge fernute…statte cuieto nu mumiente!” Poi con voce sommessa: “Maronne, cumm’ è agitate, sempre accussì, cumme s’avisse a fa quacche cose d’importante!”
“È ditte quacchecose, Cire?” “ No Gennà, n’agge ditte niente!” E con un filo di voce: “Che scassacazze, stu cristiane!”
I nostri due amici, Gennaro Platone e Ciro Aristotele, che si conoscono da oltre quaranta anni, fin da quando, appena ragazzi, le rispettive famiglie, abitanti nello stesso vicolo, fecero amicizia, da allora non fanno altro che stuzzicarsi a vicenda, si prendono sempre in giro e, la cosa più importante, dibattono spesso sulle cose più diverse, tanto sono compresi dei loro cognomi, dal filosofeggiare su tutto e tutti, con risultati il più delle volte ridicoli, per chi ha la sventura di ascoltare le loro discussioni.
Com’è costume a Napoli, sono stati soprannominati: ”E doje filosofe”. In questa definizione c’è tutta la bonomia e l’ironia tipica dei napoletani. Gennaro è o filosofe che nun fatiga e Ciro è o filosofe d’a pizza! Disoccupato il primo, gestore di un’antica pizzeria il secondo.
Li abbiamo conosciuti già, in occasione della “disputa filosofica”, avvenuta nella pizzeria di Ciro, su un bicchiere di birra, se fosse da considerare mezzo pieno o mezzo vuoto.
“Gennà, agge fernute, stò arrivanne!” “Buone, mo vade ad avvisà o prevete, don Giuseppe, pe’ sunà ‘e campane!” Ciro di rimando: ”Cumme si spiritose e ppure nu pucherille strunze, Gennà!”
Finalmente Ciro esce, abbassa la serranda della pizzeria e, senza guardare Gennaro, fa l’atto d’andarsene, senza nemmeno salutarlo.
“Uè Cire, ma che t’a sì pigliate, te sì innervosite, né?” Ciro fa trascorrere alcuni secondi e poi si gira verso l’amico e con il sorriso sulle labbra: ”Né Gennà, aroppo tant’anne, mò m’avisse a pijà collera cu te, ormai ‘o sacce che sì nu scassacazze e…ch’agge a fa…” segue una pausa. ”E poi, nun putimme appiccicasse…simme doje filosofe…e filosofe ragionane, parlane, discutene, ma nun ponne litigà”. “Può esse che Platone ed Aristotele se pijene a male parole o se danne nu sacche e mazzate?”
Gennaro assecondando quest’affermazione di Ciro con ampi e sussiegosi movimenti della testa, gli risponde in italiano, come fa normalmente quando crede di dire cose serie e sensate:”Hai pienamente ragione mio caro amico, la nostra condizione di filosofi, di pensatori insigni, non ci consente di scendere al livello del popolino ignorante e maleducato! Abbiamo sempre un nome da portare con rispetto e dignità!”
Dopo questa pomposa ed enfatica dichiarazione, Gennaro dice a Ciro:” E mò, iammuncenne da don Gaetà a vevere nu bello café!”
Percorrono un vicolo dopo l’altro, finché arrivano al bar di don Gaetano, situato in prossimità di via Caracciolo.
Entrano e Gaetano appena li vede: ”Buongiorno a voi eminenti filosofi, che cosa posso servirvi?” Gennaro sempre pronto alla battuta:”Buongiorno don Gaetano, se voi faceste il caffè così buono quanto siete spiritoso, sareste chine ‘e denare e nun avisse bisogne de sfottere cchiù a nisciune!”
Poi rivolgendosi a Ciro: ”Caro collega, prima o poi, dovremo deciderci a cambiare bar, questo qui, ogni giorno che passa, meno si confà a due personalità come le nostre!”
Ciro, che dei due è il più sempliciotto, non riesce a trattenersi e sbotta in una risata che coinvolge don Gaetano, gli altri avventori del bar ed infine anche Gennaro.
Gaetano rivolgendosi a Gennaro: ”Né Gennà, stamattina siccome m’hai fatto rirere ‘e guste, o cafè ve l’offre io!” Gennaro, facendo buon viso a cattivo gioco, gli risponde: ”Accetto con piacere la vostra offerta, siete un signore, spiritoso, ma pur sempre un signore!”
Lasciato il bar, i nostri amici si avviano verso via Caracciolo. Sono le undici ed il sole spande i suoi già caldi raggi, su tutto il panorama che si può scorgere da quest’imponente e bella passeggiata lungo il golfo di Napoli.
Grazie all’aria tersa, indotta da un moderato grecale, si può ammirare il panorama della città e del golfo con una buona nitidezza. Lo spettacolo è indubbiamente all’altezza della fama che ha acquisito nei secoli la città di Napoli, la veduta del lungomare, delle colline di Napoli, del Vesuvio, della costiera sorrentina, di Capri, rappresenta un’emozione degna del famoso detto: ”Vedi Napoli e poi muori”.
Mentre i nostri due ineffabili amici, passeggiano amabilmente sul lungomare, Gennaro si ferma un attimo e guardando Ciro, gli dice: ”Cire, iere, pe tramente passeggiave, so’ passate annanze a “Pietatelle”.
“A pietatelle…e che rè sta pietatelle?” Dice Ciro, sinceramente stupito da questo nome.
“Né Cire…ma tu sii de Napule o francese, tedesco o che ne sacc’io? Nun canosce a Pietatelle?”
“No, Gennà io nun a sacce sta…Pietatelle, ch’agge a fa!”
“Virite nu pucherille con chi agge a cche fa…maronne do Carmine! E tu te chiame pure Aristotele…Gesù, Gesù”.
“Cire, mo’ nun accumenzà cumme o solite, spieghete meglio e famme capì!”
“Ahé, pe’ fatte capì a te nun abbastassere diece e Platone cumme a me!” A questo punto Gennaro cambia tono e lingua.
“Caro il mio ignorante filosofo della pizza, la Pietatella è l’antico nome dialettale di quella che oggi è conosciuta come la Cappella San Severo”
“Ah! E nun o poteve ricere subito che stive a parlà d’a cappielle d’o principe San Severo?”
“Già, hai ragione, dovevo capire che la tua ignoranza, anche della conoscenza della tua città natale, ti avrebbe impedito di capire di che stavo parlando”. Dopo aver tratto un sospiro, riprende:
“Ti dicevo…che sono passato davanti alla Cappella San Severo e mi sono venuti in mente alcuni pensieri, come spesso mi accade, su di essa, sul Principe e su quello che contiene”.
“Nun sacce pecché, ma tengo ‘a sensazione ch’accumenze n’ata discussione “filosofica”. Pensa subito Ciro.
“E…Gennà ch’avisse penzate? So’ curioso assaie!”
“Ho pensato alla persona del principe che ha ingrandito e arricchito questa cappella con delle opere d’arte straordinarie, commissionate a grandi artisti del settecento e che vi ha anche direttamente contribuito, con la sua attività e con il suo ingegno”.
“Ste ccose, ‘e sapeve anch’io Gennà!”
“Ma tu lo sapevi chi era e cosa faceva il principe Raimondo de Sangro VII principe di San Severo?”
“Io sacce chelle che sapene tutt’e quante, che era ‘no grand’omme, ma che era anche, nu po’ stregone, nu po’ diavolo, che jucave co’ i muorte, faceva esperimenti strani assaie e ch’era pure Massone!”
“Ecco, tu sai quello che ha tramandato la tradizione popolare, il frutto delle voci e delle chiacchiere del popolino ignorante e pauroso di fronte al genio ed alla grandezza di un uomo come il Principe!”
“Traversamme a strada Ciro e assettammece in coppe a chella panchina, sotto ‘e piante, accussì continuammo a raggiunà più comodamente!”
Appena seduti sulla panchina, Gennaro riprende il filo del suo discorso.
“Il Principe era una persona speciale, un intellettuale, un letterato, uno scienziato ed anche un filosofo!”
“Azz, tutte ste ccose sapiva a fa!”
“Anche di più!” Sentenziò con enfasi Gennaro, pago di aver suscitato l’interesse di Ciro sull’argomento.
“Tu, certamente non sai che egli ha inventato un tessuto impermeabile che donò al Re di Napoli, una luce perpetua, una carrozza che camminava da sola per alcuni minuti e che le sue grandi capacità d’alchimista lo condussero a delle scoperte interessanti e a delle applicazioni pratiche concrete, come il fucile antivento, il cannone che sparava più lontano degli altri ed alcune sostanze che indurivano e metallizzavano i materiali più vari!” “Lo sai che il panno velato che ricopre, in varia misura quasi tutte le statue della cappella, la più famosa delle quali e quella del Cristo morto disteso, a tutti noto come “il Cristo Velato”, è opera del principe?”
“Allora era pure ‘no scultore?” Dice interessato Ciro.
“No, non era anche scultore, ma con le sue capacità d’alchimista è riuscito a trattare un tessuto velato con certe sue misture, riuscendo a far sì che dopo essere stato drappeggiato sulle sculture, dall’artista Giuseppe Sanmartino per il Cristo, esso s’irrigidisse come il marmo della statua, senza perdere la sua trasparenza. Ecco come si è ottenuto quello straordinario effetto plastico che avvolge tutto il corpo del Cristo e che ha reso questa statua celeberrima ed una delle opere più belle in assoluto. Pensa che il Canova, che di statue se ne intendeva, l’avrebbe pagata qualsiasi prezzo, ma non riuscì a comprarla e l’ha definita la più bella statua dopo la pietà di Michelangelo.”
Una pausa di silenzio segue quest’erudita spiegazione, che ha lasciato Ciro letteralmente a bocca aperta.
“Maronna mia… Gennà, allora sto Principe oggi, avrebbe avute ‘o Nobbel?” Dice Ciro, sempre più preso dalla storia.
“Certamente! Era un intelletto enciclopedico e multiforme, tipico del settecento, dove personaggi come lui, ce ne sono stati tanti ed in particolare a Napoli, in ogni ramo del sapere. Non per nulla il settecento è il secolo dei lumi, dell’enciclopedia, della Rivoluzione Francese ecc. ecc.”
Gennaro ormai sembra non fermarsi più. La sua ammirazione per il principe lo ha talmente rapito che se Ciro non fosse intervenuto, avrebbe continuato per chissà quanto tempo ancora.
“Gennà, chesta è ‘na storia bella assaie, ma mo’ m’avisse a ricere dove iamme a fernì, pecché ‘o sacce che quando fai accussì, devi dimostrà quacche cose, che n’agge ancora capite!”
“E bravo Ciro! Sono tanti anni che ci frequentiamo ed ormai mi conosci così bene che ci capiamo al volo!”
“Ritornando a quando sono passato vicino alla cappella San Severo, uno dei pensieri che mi ha preso, è stato questo: è mai possibile che un uomo come il Principe, così ingegnoso e studioso, grande esperto di scienze alchemiche, non abbia mai pensato e tentato di scoprire anche lui la Pietra Filosofale, il miraggio scientifico e filosofico, rincorso da tanti uomini d’ingegno, nel corso dei secoli precedenti?”
“A preta filosofale? E che è sta cosa? ‘na preta che raggiona?” Se n’esce Ciro improvvisamente, interrompendo Gennaro.
“Non conosci nemmeno la Pietra filosofale? Né Cire, vavattenne in coppe ‘o Comune e fatte cagnà o cognome. Nun te poi più chiammà Aristotele…sii troppe ignorante e trappane!”
“Né signor Platone…ce vulissime ì assieme in coppe ‘o Comune: io me cagne o nomme e tu…te cagne indirizze e te n’isse ad abità a via d’o cantere 23, accussì, nun c’ intussicamme cchiù, cu ste strunzate!”
Gennaro, riconoscendo di aver esagerato un po’:
“Né signor Aristotele, Platone non può più scherzare con il suo illustre collega? E poi, all’epoca sua…non si parlava ancora della pietra filosofale, quindi, è comprensibile che lei non la conosca!”
Non fa in tempo a finire la frase, che sbotta a ridere ed anche Ciro, che in questi duetti ci si ritrova sempre.
Anche stavota m’e fatte rirere, ma mo’ m’hai a ricere che è sta preta filosofale, ca sinnò vade a pijà ‘na preta e t’a tire in cape!”
“Va buone, agge capite, tene pacienza!”
“In poche parole, caro collega, la pietra filosofale era quella sostanza che si riteneva fosse l’origine di tutta la materia solida inorganica”. “Hai capito il concetto?”
“Sì! Te si scurdate cu chi stai parlanne?”
Gennaro continua senza replicare.
“Gli studiosi, i filosofi, gli alchimisti, che spesso erano tutti queste cose insieme, hanno tentato per secoli di trovare questa sostanza che avesse la capacità di donare l’elisir di lunga vita e di tramutare ogni metallo in oro”.
“Genna’, ma tu overe stai ricenne, sta preta pote cagnà o fierre in oro?”
“Sì, Ciro! Così credevano, ed erano in tanti a crederci, anche personaggi sapienti e religiosi”. “Se non ricordo male, più che di una pietra vera e propria, si sarebbe trattata di una polvere -L’Opera, come la chiamava qualcuno- che secondo come era usata: sciolta in un liquore, diveniva un elisir di lunga vita, una medicina contro i mali e che addirittura ti rendeva immortale!”
“Immortale…” fa eco Ciro con un’espressione di grande stupore.
“La stessa polvere unita all’oro o all’argento, in modo che si amalgamassero, avrebbe avuto la capacità di mutare qualsiasi metallo in oro!”
“Ma chesta cosa era nu miracole!”
“Praticamente sì, Ciro, ma solo chi avesse tanto studiato e fosse diventato moralmente grande, avrebbe potuto gestire un potere simile!”
“Ma c’è anche un’altra lettura, forse più filosofica, di questa pietra. La “pietra”, non sarebbe altro che uno stato mentale al termine di un processo alchemico del nostro animo, al compimento del quale noi saremmo in grado di trasformare in “oro” quello che sta intorno a noi o compiere, quelli che gli uomini comuni chiamano, miracoli e/o magie. Ma questo è un discorso più complicato e più moderno sulla “pietra”.
A questo punto scende il silenzio fra i due, disturbato dai rumori della città che per alcuni minuti sono sembrati sparire grazie all’avvincente coinvolgimento che si è creato fra Gennaro e Ciro.
“Ecco Ciro, per chiudere l’argomento, così dopo ce n’andiamo a mangiare ‘na fella ‘e pizza, mi sarebbe piaciuto che il nostro grande Principe di San Severo, con tutte le doti e l’ingegno che aveva, fosse riuscito a scoprire il segreto della “Pietra Filosofale!”
“E certo, fusse state ‘na cosa grande, pe’ Napule e p’o munne intiere!”
“E sì, Ciro hai proprio ragione…anche se qualcosa del genere deve aver tentato se è vero quello che si racconta di quando è morto”.
“Ah sì e ch’è succiesse quanno murette?”
“Si dice, ma chissà che c’è di vero, che quando stava per morire, Il principe avesse chiamato un suo servo e gli avesse dato precise disposizioni su quello che doveva fare appena morto.”
“Uh, maronne e ch’aveva a fa o serve?”
“Doveva fare a pezzi il corpo del principe, chiuderlo in una cassapanca e cospargerlo di una polvere da lui creata che l’avrebbe fatto ritornare in vita”.
“Pecchè a piezze, nun ce trasiva inte a cascia o principe?”
“Uè, Cire, e che ne sacc’io, forse era na cascia piccirilla e solo chella aveva… che te ne fotte a te! Accussì se dice e accussì t’o diche. Tanto aroppo aveva a resuscità…intere o a piezze era a stessa cose!”
Una pausa e Gennaro riprende la sua calma.
“È risuscitate o principe?” Incalza Ciro.
“No…ma quasi!”
“Quasi? Che stai ricenne…nu quasi risuscitate n’agge mai sentite!”
“È successo questo, sempre stando alle dicerie tramandate: poco dopo la morte del principe, i parenti, che erano fetenti pure nel 1700, sono entrati dentro casa per prendere tutte le ricchezze e gli oggetti di valore che c’erano. Quando hanno visto la cassapanca l’hanno aperta, pensando che fosse piena di cose preziose e…”
Gennaro fa una pausa ad arte per stizzire Ciro.
“Ohè…e… ch’è succiesse, fernisce e raccuntà…!”
“…e il principe si solleva dalla cassa, con gli occhi strabuzzati e lancia un grido bestiale e poi ricade dentro. A quel punto era morto davvero, ma penso che pure i parenti non siano stati tanto bene. Nessuno saprà mai se il principe di San Severo sarebbe resuscitato completamente…se la polvere avesse avuto il tempo di agire…”.
“Aizammece e jamme a magnà quacche cose!”
Per qualche minuto Gennaro e Ciro proseguono in silenzio, ancora in preda all’emozione di quel racconto antico ed incredibile.
Piano piano, cominciano a sciogliersi e riprendono l’atteggiamento di sempre, dei due amici sin dall’infanzia.
Percorrono ancora un gran tratto del lungo mare prima di raggiungere il locale dell’amico di Ciro, pizzaiolo anche lui.
All’improvviso, Ciro si ferma, si guarda tutt’intorno respirando profondamente l’aria del mare, e rivolgendosi a Gennaro dice:
“Gennà, adesso vulisse parlà italiano anch’io, anche se non sono bravo cumme a te, perché agge pensato una cosa seria e bella anch’io e te la voglio dire!”
Gennaro, rimasto interdetto da quest’uscita inusuale dell’amico, si ferma anche lui e gli dice:
“Prego signor Aristotele ci mancherebbe che Platone dopo aver tanto parlato, non consentisse al suo illustre collega di manifestare il suo profondo pensiero!” Inutile dire che questa frase è stata pronunciata con evidente ironia, ma Ciro, non raccoglie e con voce calma e bene impostata:
“Gennaro, guardati intorno fin dove l’occhio può arrivare”.
Gennaro si guarda intorno, non capisce, ma non interrompe.
“Tu poco fa hai parlato della pietra filosofale, dell’elisir di lunga vita, di miracoli, di magie, di uomini potenti e studiosi, che volevano trasformare in oro il ferro, fare miracoli ed altre cose belle. Io non sono un uomo potente, né uno studioso, non faccio miracoli…faccio le pizze. Però, forse, agge capite ‘na cosa che tutti questi uomini importanti, come il principe, non sono riusciti a capire. Mi sono guardato intorno, ho visto Napoli, ho visto il mare, il Vesuvio, il Golfo, Capri e ho pensato a tutto quello c’è vicino e non si vede da qui, ma si “sente”, Positano, Amalfi, Ravello, Ischia e tante altre località. Ho sentito mentre camminavamo le voci, i rumori ed i suoni della nostra gente e me so’ ditte: abbiamo parlato della pietra filosofale, dell’immortalità e noi ce l’abbiamo a casa la pietra filosofale, o meglio noi abbiamo la “terra filosofale”, benedetta da Dio per quant’è bella. Abbiamo la “gente filosofale”, tanto è brava ed ospitale, nonostante tutto. Abbiamo l’aria filosofale, o mare filosofale e…perché nò, la “pizza filosofale” o “café filosofale”, a “musica filosofale”.
Ciro recupera il fiato perso nell’enfasi del suo discorso e prosegue sempre con trasporto.
“Qui c’è il vero oro dell’anima, qui c’è l’immortalità della gente…tutte o rieste, so’ sole strunzate! Cà sulamente nuje stamme buone…chiste è o miracole!”
Gennaro è rimasto impietrito e commosso da questa dichiarazione semplice, spontanea ma densa di filosofica schietta verità.
S’avvicina a Ciro, gli passa un braccio sopra le spalle e gli dice:
“O vire ch’anche tu nun te chiamme Aristotele pe’ case e che sii nu grande filosofe!”
“Jamme a mangià a “pizza filosofale, jamme!”
L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA
Napoli, il giorno di Ognissanti, ore 16.
Ciro Aristotele e Gennaro Platone sono due unici ed ineffabili personaggi partenopei, già noti per altre semiserie disquisizioni filosofiche, in cui spesso si avventurano, nella consolidata presunzione e convinzione, che deriva loro dal portare i nomi di due massimi filosofi greci, di essere “geneticamente” preparati e mentalmente adatti ad argomentare filosoficamente su qualsiasi materia.
Come spesso accade Gennaro, che non ha un’occupazione fissa, si trova nella pizzeria del suo grande amico, nonché “collega” Ciro.
Nell’intervallo tra l’impegno dell’ora di pranzo e quello serale, Ciro si concede un po’ di riposo che spesso condivide piacevolmente con Gennaro, ben sapendo che in queste occasioni si accendono delle dispute filosofiche, anche molto intense e controverse, come si addice alle due scuole di pensiero che dai loro “antenati” trassero origine.
I due pensatori, stanno seduti, in molle abbandono, intorno ad uno dei vecchi tavoli di ferro e marmo bianco, al cui centro spicca una bottiglia di vino rosso di Lettere con, accanto, due bicchieri appena iniziati.
Stanno assaporando con tutto il gusto e la bonomia napoletana, quei minuti di assoluto rilassamento.
“Né Ciro, dimane o sape che juorno è?” Domanda con grande flemma Gennaro.
“Certamente Gennaro ch’o sape: è o juorno dei muorte, o doje novembre!” Risponde Ciro un po’ piccato.
”Bravo, Ciro, bravo. Vede ch’a sì appriparato!” Replica Gennaro con la sua solita aria di sufficienza.
“E ggià! Borbotta Ciro a denti stretti. “E pecché m’avisse fatte st’addumanna?” Incalza.
“Pecché stave penzanne a nu raggiunamento sulla muorte!” Risponde Gennaro calcando teatralmente la voce sulla parola morte.
“Maronna mia, oggi stai cchiù allero d’o soleto, eh?” Dice Ciro, agitandosi sulla sedia e manovrando gli scongiuri del caso con le mani sotto il tavolo.
“Uè Ciro, nun’è comme penze tu, tu ‘o sape ca io me chiamme Platone e quanno penze a ‘na cosa è pe’ raggiuna su essa”.
Segue una pausa silenziosa in cui Ciro guarda con sospetto il suo amico ed intuisce che egli si sta lanciando in una disputa filosofica, nella quale lo coinvolgerà come il solito.
“Caro Ciro, io mi chiedo se sarà vero o no che noi siamo un corpo ed un’anima e, di conseguenza, se quando il corpo cessa di vivere, cessa anche l’anima o no?”
“Oì, sta parlanne in italiane, la discussione filosofica è accumminciata!” Sussurra Ciro.
“Hai detto qualche cosa mio caro collega?”
“No, no niente, pensavo a o ciesse…Ch’hai capite… a, quando uno “cessa” di vivere…a quand’uno schiatte”. Sottovoce, poi, eclama:
“Putesse murì ‘e subbeto ma che canchere d’argumente aveve a chiavà ‘a fora: ‘a muorte! N’aveve ‘e meglio a che penzà?”
“Caro Ciro, come il solito, nonostante il nome che porti, sei sempre lento nell’afferrare l’importanza degli argomenti che ti sottopongo e le loro sfumature. Proseguendo il mio ragionamento in base a quello che ho letto e studiato in proposito, vedrai che riuscirò a far entrare anche nel tuo angusto cervello delle importanti nozioni di filosofia su un tema che anche i nostri omonimi hanno trattato, aprendo la strada ai successivi grandi filosofi, ai ‘Padri della chiesa’ ed ai grandi speculatori di tutti i secoli fino ai giorni nostri”.
“Azz, Gennà, chesta ha dda esse ‘na discussione de chille pesante, overo?
Dopo un attimo di esitazione: Ma, scusa né, che ce trasene gli speculatori, che sull’aneme ce facevane e renare?”
“Maronna mia, cumme sì ciuccio, ed io ca ce perde ancora o tiempo mio cu te! Aroppo, si stai bravo, t’ho spiech’io ca significa a parola “speculatore” ca chello ca penze tu, nun ce trase niente cu o discorse nuosto|”.
Ripreso il contegno del pensatore, Gennaro prosegue:
“Eh, sì Ciro, posso ben dire che è ancora una questione aperta, sulla quale ancora non c’è e, forse, non ci sarà la parola fine!”
“Dunque! Cominciamo dal concetto di anima.”
Così facendo, Gennaro assume un atteggiamento ieratico ed ispirato, degusta un altro sorso di vino e, non senza movenze plateali, inizia ad infilarsi in questa difficile disquisizione, senza sapere dove andrà a finire, come sempre, del resto.
Ascoltiamo.
“L’anima è un corpo, una materia che si può toccare?” Si ferma, osservando Ciro, nell’attesa della risposta alla sua domanda.
Ciro lo guarda, ma non risponde.
“Uè Ciro sto parlanne cu te o cu ‘no pizzajuolo muorte?”
“Scusa Gennà, penzavo che fusse n’ addumanna retorica!”
“E bravo Ciro, puteva esse, ma nun era, io stave dimannando a te se l’anema è na cosa che se pote tuccà e vedé!”
“Aah, e no! Io nun ne agge mai vista nisciuna, né sentuta, né addurata. L’anema è ‘na cosa che c’è, ma nun è consistente, comme e pensiere che ce stanne e come, ma nun se tucchene!”
Ciro, compiaciuto di questa sua risposta, domanda a Gennaro.
“Agge risponnute buono, né Gennà…sono o nun sono Aristotele?”
“Per la tua levatura intellettuale e culturale hai risposto fin troppo bene e da te non mi aspetto di più”.
“Uè Gennà, mò nun accummincià a fa u strunze, cumme o solite e vai annanze!” Gli replica Ciro, dando il via al consueto gioco delle parti che puntualmente si rinnova in ogni discussione, a cui entrambi non rinuncerebbero mai, perché ci si divertono molto.
“Anche le divintà antiche erano accreditate dell’anima, ma essa per loro era consustanziale al loro essere divini”.
“Consu….che?” Esclama Ciro.
“Che parola difficile, pure a dicere…ca significa?”
“Ciro, accussì nun se puote ghì annanze. Tu dice da esse filosofe ma nun canosce e parole d’a filosofia!”
“Gennà, io so filosofe cumme o sii tu, sule che io fatiche quasi tutte e juorne e tu, ‘na vota ogne tanto, puote pure leggere e studià, pe’ aroppe venì a cà a scassamme o cazz!”
“Va bene, mio caro collega, pur se ti sei espresso in vernacolo, il concetto è chiaro e concordo con te, quindi, sarò paziente e cercherò di acculturarti!”
“Nun pazziamme Gennà…che vulisse fa …accul…arme, niente niente fusse addiventà ricchione?”
“Ho capito, cercherò di evitare vocaboli troppo difficili per te!” Guardando Ciro di sottecchi:
“Acculturarti, non significa che ti dovrei turare il… hai capito o no? Significa trasmetterti un po’ della mia cultura, cercare di farti crescere nel sapere…sei sempre Aristotele!”
“Ah! Agge capito. Pe’ nu mumiente m’ero preoccupate…Continua…”.
“Ti sì cattolico, Ciro, no?”
“Sì so’ cattolico!”
“La con-sus-tan-zia-zio-ne” – Scandendo la parola ad alta voce- “è un sostantivo che indica che due o più cose sono fatte della stessa sostanza. Il concetto della Trinità nel cattolicesimo si basa su questo dogma: Dio è uno e trino, il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, sono una cosa sola, pur se tre!”
Gennaro tace per un po’ per permettere a Ciro di “digerire” quest’ostico concetto.
“Posso proseguire?”
“Sì, sì, ho capito è un po’ cumme e pizze gruosse che facc’io, ce stanno tre guste ma a pizza è una sola!”
“Bravo Ciro, un esempio, colorito e saporito, che rende l’idea, bravo!”
Lusingato dall’affermazione di Gennaro, Ciro si mette più comodo e pende dalle labbra dell’amico, con il quale è riuscito ad entrare in sintonia.
“Allora ho detto che per le divinità, anticamente si diceva che l’anima era consustanziale al corpo, ma per l’uomo, che non è divinità, la sua anima non è consustanziale a Dio, non torna al divino, come dicevano anche gli ebrei. L’anima dell’uomo non preesiste prima di lui, ma è creata insieme al corpo, il corpo è una funzione dell’anima, non un’essenza diversa e come tale quando il corpo muore, anche l’anima muore, perché non proviene dal divino, da Dio, non può tornare alla divinità, perché non è mai uscita dal corpo”.
Gennaro riprende fiato e cerca di fare chiarezza nella sua mente per continuare.
“Ora vengo ai nostri antenati. Platone, di cui porto degnamente il nome, distingueva il corpo come sostanza diversa dall’anima, quindi non consustanziale. Invece Aristotele era più vicino al concetto ebraico di un’unità indissolubile di anima e corpo”.
“So tuoste sti pensieri, né Ciro, ma a filosofia è accussì!”
“Dice overo Gennà, so d’accuorde cu te! Ma, riceme del mio antenato, isso nun crereva all’immortalità dell’anema, allora?”
“No! Il suo pensiero collimava con quello ebraico e poi cristiano: se l’anima è creata e riceve la vita dal corpo che la informa e non è divina, come si può sapere se continuerà ad esistere, quando avrà finito d’informare il corpo, come il mio, ad esempio?”
“Bella addumanna!”
“Per i cristiani, siccome l’uomo è anima vivente, solo la resurrezione può fa rivivere l’anima! In questo caso l’anima ed il corpo divengono immortali!”
“Ne deriva caro Ciro che tu che ti chiami Aristotele non credi nell’immortalità dell’anima ed io che mi chiamo Platone sono convinto del contrario!”
“Ah! E mò che succede? Che io m’aggia tenè ‘n’anema che muore e tu un’anema immortale?” Domanda, non senza preoccupazione Ciro.
“Allo stato delle cose …sì!” Esclama, tronfio, Gennaro.
“Ah sì! Ogne vota ha da fernì accussì: io che so Aristotele, agge sempe tuorto o fernì malamente, pe’ ttramente ca tu sì Platone, avisse ascì sempe buono, cchiù impurtante e cchiù intelliggente!”
“Ciro, ma questa è la storia della filosofia ed i nostri “antenati” affermavano così…!
“Hai ritto buono, gli antenati, ma o toje, mica o sapeva ca o nepote fusse stato nu strunze cumme sii!”
“Ma Ciro…pecché t’a sì presa, so cose viecchie, nuje nun ce trasimmo niente!”
“È overo, Gennà, ma me so’ contrariato, ca chillo pover’omme d’Aristotele, cioè io, ha da fa a fiura d’o fesso e siccome stamme a parlà de anema, siente buono ca te dico…l’anema de chi t’è muorto!”
Dopo questa imprecazione Ciro si alza e va al forno per preparare il fuoco e tutto il necessario per le pizze della sera.
Gennaro resta un po’ interdetto ma poi, con la prontezza e l’arguzia tipica partenopea, dice, ad alta voce, a Ciro:
“Uè Ciro…cchiù tarde turno a me magnà chella pizza c’hai detto prima…chella consustanziale…”.
Non fa in tempo a finire la frase che Ciro gli lancia contro un pomodoro S. Marzano che lo prende in pieno viso.
“Non si preoccupi signor Platone…la sua anima sarà immortale ma non certo immacolata!”
Questa battuta fulminante e pertinente, come non mai, scatena una sincera e fragorosa risata da parte di Gennaro, alla quale poco dopo si aggiunge anche quella di Ciro, soddisfatto di aver in qualche modo riequilibrato la situazione.
Si è chiuso un altro piccolo atto della quarantennale commedia recitata da Gennaro Platone e Ciro Aristotele.
IL TERNO A LOTTO
Napoli.
È uno dei primi giorni di dicembre. Già si avverte l’atmosfera delle festività natalizie: i negozi e le strade hanno iniziato ad addobbarsi.
Questa città, com’è noto, ha una sua particolare affezione al Natale, consolidatasi nel corso dei secoli. Nonostante il progressivo decadimento dei valori e degli usi ad esso connessi, resiste e persiste l’attaccamento dei suoi cittadini alla festa più sacra dell’anno, che trova il suo fulcro principale, la sua sublimazione, nella preparazione e nella cura dedicata all’allestimento della sua rappresentazione che si concretizza con il Presepe. Raffigurazione che si tramanda da otto secoli, da quando Francesco d’Assisi realizzò la prima ricostruzione vivente della nascita di Gesù, nel paese reatino di Greccio.
Questa sacra riproduzione conserva ancora a Napoli tutto il suo intenso significato, che ha prodotto una plurisecolare tradizione del Presepe, cui hanno contribuito anche artisti di talento. Intorno alla “Sacra Famiglia” si sono creati gli scenari più diversi e collocati i personaggi più disparati,in aggiunta a quanto descrittonei Vangeli di Luca e di Matteo ed in alcuni vangeli “apocrifi”, frutto della fantasia e della creatività dei napoletani.
Potevano rimanere immuni da questa magica e mistica atmosfera, i nostri due ineffabili “filosofi” napoletani: Gennaro Platone e Ciro Aristotele, già protagonisti di altre curiose e strampalate vicende?
Certamente no!
Cerchiamo, allora, di scoprire qual’è il loro atteggiamento ed il loro “profondo pensiero” sulla festività dell’anno per antonomasia.
È un lunedì, giorno di chiusura settimanale della pizzeria di Ciro. Sono le undici circa di una giornata autunnale in cui il sole si alterna alle nuvole in un naturale gioco di rimpiattino.
Ciro e Gennaro, come sono soliti fare spesso, passeggiano tranquillamente per le vie del centro di Napoli, discorrendo, a modo loro, del più e del meno.
“Né Ciro, pure chist’anno s’accummincia a praparà o Natale primma d’a festa dell’Immacolata!”
Afferma dispiaciuto Gennaro alla vista di numerose vetrine con i primi ornamenti natalizi.
“È overo Gennà, ogni anno s’accumincia sempe primma: già so’ pronti i panettoni i pandori rinto ‘e pputeche, ‘e lluci in mieza ‘e vie”. “ Che se fa pe’ vennere sempe e cchiù”. Ciro s’interrompe un attimo per riorganizzare il suo pensiero in proposito.
“…e o senso religioso, cristiano de chesta festa scumpare sempe e cchiù!”
“Bravo Ciro!” Esclama compiaciuto Gennaro.
“M’hai tolto letteralmente le parole di bocca!” Replica Gennaro in buon italiano, come è solito fare quando affronta argomenti importanti, convinto di dare maggiore autorevolezza alle sue “filosofiche” affermazioni e considerazioni.
“La nostra fortuna, caro collega, è che siamo a Napoli. La decadenza della festa cristiana, che ricorda il più grande avvenimento della storia: la nascita di Cristo, rispetto alla realtà consumistica della società odierna, che ci ha indotto a privilegiare l’aspetto profano della festa contro quello mistico religioso, qui da noi, è meno accentuata che altrove.
Gennaro, che nel proferire queste parole ha assunto un atteggiamento ispirato, si ferma per riprendere fiato e per scorgere negli occhi di Ciro la sua approvazione. Constatato l’assenso del suo collega Aristotele, prosegue:
“Gesù Cristo, che ci si creda o no nella sua divinità, nell’essere figlio di Dio e che sia consustanziale alla Trinità… della consustanziazione, come ricorderai caro Ciro, ne parlammo a proposito dell’immortalità dell’anima…”.
“Sì, sì a tengo a mente buone chella discussione!” Risponde Ciro, con fare sufficiente.
“La nascita di Gesù ed i suoi insegnamenti, come dicevo, hanno rivoluzionato il mondo antico e segnato indelebilmente il corso della storia!”
“Overo, parole sante Gennà!” Sottolinea compiaciuto Ciro.
“Già e noi oggi celebriamo questa ricorrenza più con i regali e con il cibo, che commemorando ed onorando i regali che il Cristo ci ha fatto ed il cibo del suo corpo che ci ha lasciato!”
“Azz…Ciro, chesta frase è proprio bella, m’è venuta buona eh? Che ne penze tu?”
“Ch’ave a dì Gennà, io me chiamme Aristotele ma a pietto a te che te chiamme Platone nun so’ nisciuno! Tu sì overamente nu granne filosefo!”
“Te piace sfrugugliamme ogni tante, eh?”
“No! So’ onesto, ogne tanto, non sempe, hai delle belle penzate!”
“Va buono, te voglio crerere, simme quasi a Natale e voglio essere buono anch’io cu te!”
“Grazie assaje scellenza! ‘E belle pensate ‘e tenesse pure, ma nu pucurillo strunze ‘o sì sempe…pure a Natale!”
Gennaro reagisce ridendo di gusto, contento di aver suscitato la reazione di Ciro che, come sempre, abbocca alle sue provocazioni.
Queste schermaglie ultraquarantennali sono diventate il sale ed il cemento del loro sodalizio.
“Meno male che a Napoli è ancora ben radicata la tradizione del presepe”. Continua Gennaro.
“Né Ciro, ma a te piace ‘o presepe?” Ciro lo guarda negli occhi e con l’arguzia e la prontezza dei napoletani…: ”No! ‘o presepe nun me piace!”
“Overo dici! In tutte quest’anne n’avisse mai saputo!”
“Mò, nun me piace cchiù! Ave sentuto: ‘O PRESEPE NUN ME PIACE!” Ripete ad alta voce.
Gennaro resta interdetto e lo squadra con uno sguardo compassionevole.
Ciro soddisfatto di averlo stupito e contrariato, prosegue: ”Avete sentuto buono signor Gennaro…Cupiello? Al qui presente Nennillo…Cupiello ‘o presepe nun piace!” A questo punto Ciro non resiste più e sbotta a ridere.
“L’anema e chi t’è…, m’hai preso in giro bene bene… e bravo accussì s’addà fa. Ce so’ trasuto cu tutte ‘e cazone…bravo!”
Argomentando così, tra facezie e serietà, i nostri due amici sono giunti a via Caracciolo.
Mentre camminano sul lato destro della strada sentono suonare più volte un clacson di un’auto, vicino a loro. Nell’ordinaria confusione di Napoli, non ci fanno caso più di tanto. Il clacson continua a suonare e ad esso si è aggiunta una voce femminile:
“Signori scusate!” I due finalmente si voltano e vedono, attraverso il finestrino abbassato dell’auto, una signora dall’età indefinita, forse intorno ai settant’anni, chinata verso di loro, alla guida di un’Audi d’annata, di quelle che erano pubblicizzate in latino giocando sul nome della casa automobilistica che corrisponde all’imperativo del verbo audere: <Audi, hoc est sermonem latinum…>, così recitava la pubblicità che magnificava le virtù dell’auto in latino.
La signora di aspetto distinto ed elegantemente ma sobriamente vestita, sempre rivolta a loro:
“ Mi dareste un’informazione, per favore?”
“Certamente signora, dite pure!” Esclamano quasi insieme Ciro e Gennaro che, nel frattempo si accostano all’auto ormai ferma.
“Grazie! …ecco dovrei andare a via S.Gregorio Armeno, sapete, dove fanno i pastori e gli addobbi per il presepe”.
“Certo ch’o sapimme, simme e Napule, signo’!”
“Certo scusate, che stupida”. Risponde quasi mortificata la signora.
“Mi sapreste indicare come arrivarci?”
“Eh…signò, con l’auto non potete andarci”. Risponde Ciro “Ci potete arrivare vicino e poi andare a piedi”.
Sì, sì va bene, basta che m’indichiate la strada…”
“È ‘na parola signo’ è complicato spiecà ‘a via d’addò stamme mo’!”
“È lontano da qui?”
“No! Ma a piedi è un bel tragitto”. Risponde Gennaro
“E allora come faccio?” Si chiede la donna sconsolata.
Ciro e Gennaro si guardano negli occhi e s’intendono immediatamente.
“Signò!” Fa Gennaro “Se a lei sta bene, ce l’accompagniamo noi, la portiamo fino a dove può lasciare l’auto e poi per arrivare a S. Gregorio Armeno sono pochi passi.
“Grazie, molto gentili ma non vorrei disturbare…”.
“Non si preoccupi signora, non abbiamo impegni, oggi… e poi come si fa a non aiutare una gentile signora come lei”.
“Ma che gentili, è una bellissima idea. Salite pure”.
I due salgono nell’auto, Gennaro si siede accanto alla signora.
Appena seduto non può fare a meno di notare come l’auto, nonostante i suoi circa quarant’anni, sia in ottime condizioni. <Forse l’avrà restaurata da poco> Pensa.
Mentre procedono la signora gli dice che viene da Bari apposta per comprare una nuova serie di pastori, di figure, di casette e quant’altro, perché questo Natale vuole preparare un presepe eccezionale per i suoi nipoti che sono, ormai, abbastanza grandi da apprezzarne la struttura ed il suo mistico significato.
“Speriamo che non facciano come il figlio di Luca Cupiello, Nennillo, nella famosa commedia del grande Eduardo a cui il presepe non gli piaceva proprio!” Dice Gennaro sorridendo e ripensando alla schermaglia di poco prima con Ciro.
“Non c’è pericolo signor…”. “Gennaro, signora e lui, il mio amico, si chiama Ciro”.
“Non c’è pericolo signor Gennaro, i miei nipoti sono entusiasti del presepe e pienamente consapevoli di quello che rappresenta…come voi…presumo”.
“E già, come noi…” Replica Gennaro che ha provato un certo turbamento nell’udire: …come voi”.
< È un tipo singolare questa donna, non so perché ma c’è qualcosa che mi colpisce e mi turba, come se ci guardasse “dentro”…> Pensa Gennaro.
Questo pensiero è subito allontanato dalla richiesta d’indicazioni della signora sulla strada da seguire.
Giunti nelle vicinanze di S. Gregorio Armeno e trovato il parcheggio con una facilità che ha del miracoloso a Napoli ed in quella zona in particolare, scendono tutti dall’auto.
“Nun sule ha truvate a nuje ma pure ‘o posto p’a macchina, sta femmena è propre furtunata e nu pucherillo strana…” Ciro annuisce.
A questo punto forniscono le indicazioni per giungere a piedi a S. Gregorio Armeno, senza più possibilità d’errore.
“Grazie, grazie tante, siete stati tanto gentili ed educati come…due filosofi… Il Signore ve ne renda merito!”
La signora stringe calorosamente le loro mani e gli augura un buon Natale, sorridendo ammiccante.
I nostri due, rimasti confusi ed inebetiti, la seguono, mentre si allontana, finché non scompare dalla vista, tra i vicoli del quartiere.
Si girano l’un verso l’altro e rimangono a guardarsi in silenzio, parlandosi solo con gli sguardi, in cui potevano leggersi, imbarazzo, perplessità ed incredulità.
Ciro interrompe quest’atmosfera:
“E sentute…gentili ed educati comme doje filosofe…comme si ce canuscesse…!”
“Che dice Cì, è solo una combinazione, un caso, la signora sa che i filosofi so’ brave persone e ci ha detto accussì…” Risponde Gennaro non senza imbarazzo.
“Nun ‘mbruglià Gennà, t’ave letto into all’uocchie che pure tu sì restà strane, da chesto incontro…aroppo c’avvimme parlato d’u presepe e de’ soje significati!”
“Ave raggione Cì, ave propre raggione…tengo ‘na strana ‘mpressione…”.
Così dicendo lo sguardo gli ritorna sull’auto della donna come se cercasse qualcosa per…capire…
“Né Gennà che stai facenno?”
“Niente Cì. Sulo curiosità. So tant’anne che n’ave visto cchiù ‘sta macchina e vire cà, pare quasi nuova e pure a targa paresse nuova, vene a veré”.
Ciro si avvicina ed insieme leggono la targa: BA 254889.
“Venticinque, quarantotto, ottantanove ripete Ciro…25 48 89…” Continua a ripetere quasi ossessivamente.
“Né Ciro te sì ‘nzallanuto, pecché stai a arrepetere sti nummeri?” Gli dice Gennaro preoccupato.
“No Gennà nun so’ ‘nzallanuto è che chesti nummeri…me riceno quaccosa…Tu saie che me piace jucà a lotto, ogni tanto”.
“Sì ogni tanto…sempe vulive ricere”. Gli rinfaccia Gennaro.
“Vabbuò “spesso” jamme! È o sulo vizzio che tengo e quacche vota ci vinco pure dei surdarielle…”.
“Allora tu stive penzanno de jucà chiste nummeri a lotto?”
“Penzo propre c’a sì, pecché sti nummeri so’…particolari!”
“Che significa, nun fa ‘o mesteriuso, particolari pecché?”
“Ancora nun so’ sicuro, jamme addu me, c’ave a consultà ‘a smorfia, ave a veré se ‘a mia ‘mpressione è vera!”
“C’aspiette allora, jamme a casa toia e verimme chiste nummeri…”.
Detto, fatto, i nostri due personaggi vanno a casa di Ciro.
Nel frattempo si è fatta l’ora di pranzo e Ciro appena a casa chiede alla moglie di aggiungere un posto per Gennaro, cosa che Carmela fa subito. Non si contano più le volte che Gennaro ha mangiato da loro, sia per l’amicizia ed ancor più perché Gennaro è da solo e la loro ospitalità gli fa sentire il calore di una famiglia.
Terminato il frugale pranzo, seguito dall’immancabile caffé, Ciro prende il libro della Smorfia ed inizia a verificare le sue intuizioni.
“Allora Gennà sente bene i nummeri d’a targa pigliati a paro di seguito so’ o 25, o 48 e o 89; o primmo è Natale, o sicondo è o filosofe e o terzo persona anziana!” Detto ciò si ferma ed aspetta la reazione di Gennaro che non si fa attendere.
“ 25, Natale e noi abbiamo parlato del Natale ed incontrato quella signora che cercava la “via” dei presepi. 48…scusa ma nun è o muorte che parla?”
“Sì Gennà ma anche ‘o filosofe: lo dice la Smorfia!”
“Allora 48 è il filosofo e noi siamo filosofi, ce l’ha detto anche la signora. 89, la “vecchia” e la signora era anziana, anche se gli anni se li portava bene!” Dopo un momento di riflessione:
“Ma che significa tutto questo?”
“Né Gennà nun l’ave capito? Chesto è nu “segno” del destino, del “Signore”, di Gesù bambino, cumme vuò tu, ma è nu segno chiaro. Pure tu ave ditto che la “signora” era nu pucherillo “strana”!”
“E ggià è propre accussì…”.
“Allora Gennà nuje avimme ‘a jucà chiste nummeri a lotto e ‘ncoppa a ruota di Bari, e signale so’ troppo evidenti…È cumme s’avissime fatte nu suonno a uocchie apierte e chella signora c’avisse rato e nummeri da jucà!”
“Tu dici Ciro!”
“È accussì Gennà, M’o sento ca è nu segnale che c’hanno mannato!” Dice a voce alta e con trasporto Ciro.
“Si è cumme penzo putimmo vincere nu po’ e denare Gennà, Siente a me! Dimane jamme o banco lotto e jucammo chesto terno ‘ncoppe ‘a ruota di Bari…so’ 4.500 volte, meno ‘e tasse, ‘a jucata, si esce…”.
“Si esce…” Ripete con scetticismo Gennaro.
“Uè Gennà io ‘o capisco ca tu sì filosofe e nun crere a ‘ste ccose ma sì pure napulitane. ‘Na vota tanto lassate guidà dall’istinto e dall’irrazionalità a da chesto povero Aristotele c’avisse avute ‘a pensata justa!” “Gennà 25 Natale, 48 filosofe, 89 ‘a vecchia, che vuò e cchiù?”
Gennaro sconcertato e disorientato dalla situazione nonché dalle bizzarre coincidenze e dalle connessioni fra i fatti accaduti, si lascia coinvolgere dagli argomenti di Ciro…mettendo da parte la sua filosofica razionalità.
“Va buono, dimane jamme a jucà chisto terno!”
“Bravo Gennà!”
“Ma quanto jucamme Ciro?”
“Gennà, io sento ca chesta è ‘a nostra occasione, nun capiterà ‘nata vota…io penzo che ammeno ciento euro a capa…”
“Ciento euro? Maronna io so’ disoccupato, fatico ogne tanto e ave ‘na piccola penzione d’invalidità nun me puozzo permettere d’arresecà ciento euro ‘o lotto!”.
“Gennà pe’ ‘na vota sente Aristotele e scurdatenne de Platone… Se nun vincimmo vieni a mangià addo me o in pizzeria quanno vuò tu, accussì te facisse recuperà e denare! Accussì va buono?”
“Ma tu ce crere overamente a ‘sta cosa, sì propre sicuro…”
“Sì!” Risponde Ciro, senza esitazione.
“Maronna mia, penze tu a chesto marito mio!” Interviene ad alta voce Carmela.
“Allora simme d’accuordo, Voglio fa ‘sta fesseria cu te!”
“Brave Gennà!” “Ce verimme dimane mattina alle nove innanze ‘o banco lotto che sta ca addereto!”
“A dimane alle 9”. Ripete meccanicamente Gennaro.
Gennaro saluta Ciro e Carmela e se ne va verso casa, già prevedendo lunghe ore di ansia e di ripensamenti. Ormai, ha dato la sua parola e…sia quel che sia!
Puntualissimi entrambi, s’incontrano davanti al banco lotto.
“Dubbi, pentimenti?” Ciro chiede a Gennaro.
“Nun ne parlamme che è meglio! Trasimme e jucamme accussì nun ce penze cchiù!”
“Jamme…trasimme!” dice tronfio Ciro.
Il gestore del banco esprime la su perplessità su una giocata così alta rispetto agli importi abituali di Ciro ma, davanti alle sue insistenze, ha preparato le giocate per un totale di duecento euro sulla ruota di Bari, come richiesto.
Appena usciti dal banco Gennaro chiede a Ciro:
“Se nell’estrazione di sabato i nummeri nun asciono c’avimme a fa, continuiamo a jucà ancora?”
“La regola è che s’avisse a jucà ammeno tre vote!”
“Pe’ tre vote! E chi e tene treciento euro!”
“Già, anch’io nun m’o puozze permettere…ma nun dà aurienze che sabato i nummeri asciono!”
“Vulisse o cielo cumme dici tu!” Dice sconsolato e rassegnato Gennaro.
“Uh maronne cumme sì traggico Gennà! So ‘e nove e miezo jamme a pijà ‘o café…pave io!”
“Ato che café…’na cuccuma ‘e cammomilla ce vulisse…”.
Sono iniziati i giorni più lunghi di Gennaro e anche di Ciro che, nonostante la sua sfrontata sicumera, in cuor suo teme di aver forzato troppo la mano.
Dopo le ambasce e le notti agitate è giunta finalmente l’ora delle estrazioni del lotto.
Sono le 20 e 25 del sabato successivo, Ciro e Gennaro sono nella pizzeria, la televisione è sintonizzata su Rai 2 che sta per trasmettere i risultati delle estrazioni del lotto.
Anche i clienti presenti nel locale, su richiesta di Ciro, si zittiscono per pochi minuti, tanto la ruota di Bari è la prima della lista.
Inizia la trasmissione. Il silenzio è assoluto. Una voce professionale fuori campo annuncia le estrazioni:
“Ruota di Bari: 18 – Ciro si morde il labbro – 48 – Ciro e Gennaro hanno un sussulto – 71 – Maronna su tre uno sulo! È finita! – lamenta Gennaro e Ciro pure -89- le coronarie dei filosofi hanno uno spasmo- 25!”
L’esplosione di gioia di Ciro infrange il silenzio tombale creatosi, esce da dietro il bancone di marmo con un panetto di pasta cresciuta in mano, urlando: ” So’ asciute, so’ asciute e nummeri, S.Gennà, a Maronne e puro S.Nicola c’avene fatto a grazzia!”
“Gennà avimme vinciute…o terno è asciute!” “Uè Gennà ‘e sentute so’ asciute e nummeri d’a signora…azz… m’o sentivo c’avive a jucà e nummeri d’a targa!”
Ciro in preda all’entusiasmo abbraccia Gennaro incurante della farina che imbratta entrambi.
Gennaro passivamente si lascia trascinare dalla gioia dell’amico, è basito ed intontito dall’esito dell’estrazione e dalla confusione creatasi nella pizzeria e stenta a credere ancora a quanto accaduto.
Per lui questa storia stride con i suoi convincimenti e con la sua razionalità “filosofica”. Ha partecipato alla giocata per non contrariare l’amico e “collega” e non mortificare la sua sicumera. <Ma per gli dei dell’antica Grecia, aveva ragione, devo ammetterlo!> Pensa, provando un misto d’incredulità e di amarezza per l’irrazionalità della vicenda con l’aggiunta della gioia di beneficiare anche lui di questa situazione irreale.
Tutti questi pensieri gli frullano nella testa mentre Ciro continua a stringerlo e ad imbiancarlo di farina scaricando così, anche lui, la tensione che i dubbi e i timori sulla giocata gli avevano procurata.
“Gennà stasera facimme festa! Guaglio’ a pizza stasera ve l’offre Ciro Aristotele, ‘o pizzajuolo filosofe e ppure furtunato. Stasera cà nisciuno pave! Offre tutto la ditta!”
Un’esplosione di consenso rimbomba nella pizzeria e tutti i clienti gridano:
“Viva Ciro o meglio pizzajuolo ‘e Napule!”
E così via fino a tarda notte.
“Ciro mò me vade a cuccà, so stracquo ma cuntento e t’ave a ringrazià ancora pecché si nun era pe’ l’insistenza toia, io n’avisse mai jucate!”
“Va bbuono Gennà, stavota Aristotele t’è rate ‘n’ata lezione de vita: la filosofia è ‘na gran cosa ma ce stanne pure ate ccose che essa nun puote spiecà…”
“È overo Ciro è overo…ce verimme dimane innanze o banco lotto, Buona notte e…grazie ancora!”
L’indomani mattina la notizia della vincita a lotto dei “doje filosofe” è sulla bocca di tutti gli abitanti dei bassi e del rione.
Mentre Ciro e Gennaro si recano al banco lotto, sono riconosciuti da coloro che incontrano per la strada e da chi, richiamato dal gran vociare, si affaccia dalle finestre e dai balconi e sono fatti oggetto dei loro lazzi e frizzi.
“O vì e doje filosofe furtunate!” “Scusate signò ve putesse alliscià nu pucherillo…s’azzeccase puro a me nu poco de furtuna!” “Bravi, bravi!” “ Beate a vuje!”
Centinaia d’invocazioni li rincorrono sul loro percorso alle quali rispondono salutando e ringraziando.
“Ciro e visto? Mò c’avimme vinciuto ‘o lotto ce salutano e ce fanno l’agurie! Primma ce sfottevano pecché eravamo e doje faveze filosofe! Mio caro Ciro il popolino è fatto così: prima ti dileggia e sberleffa, poi, come hai due denari, ti riverisce e blandisce!”
“Né Gennà, pe’ piacere nun fa n’ata discussione pure su chesta cosa mò. Statte zitto e jamme!”
Espletate le formalità per l’incasso delle vincite, Gennaro e Ciro si allontanano dal rione e vanno a prendersi un caffè in santa pace, lontano da chi li conosce.
Mentre sono seduti al tavolino a gustarsi il caffè e le brioches Gennaro dice:
“Ciro, m’è venuta in mente un’idea”:
“Né Gennà pe’ piacere, ogge so contento assaie e nun me siente e raggiunà!”
“Niente discussioni Ciro, ho capito! Volevo solo dirti che avevo pensato di ringraziare la signora che ci ha portato fortuna”.
“E cumme? Chi a canosce a chella?”
“Ciro abbiamo la targa dell’auto, no? Con quei numeri abbiamo vinto il terno e con gli stessi possiamo rintracciarla!”
“Overo, ma cumme facimme!”
“Vedi ho pensato di dare la targa al mio amico maresciallo dei carabinieri: Alfonso De Simone, te n’ave parlato quanno succiesse ‘o fattaccio de Luigi ‘o scarparo!”
“Bravo, m’o ricuorde, diamo a isso la targa e accussì sapimmo ‘o nome e ‘nderizzo d’a signora o di quaccheduno che ce pote aiutà a la truvà!”
“Sì facciamo accussì, un bel mazzo di fiori, almeno, se lo merita!” “Facimme doje passi fino a S. Vitale, si o trovamme gli dimannamme ‘a gentilezza e si nun c’è ‘o chiamme io a casa stasera!”
“Buono jamme, ‘na bella cammenata ce fa buono, cu st’aria frizzantina c’addore e mare!”
Giunti alla stazione di S.Vitale, Gennaro chiede al corpo di guardia di annunciarlo al Maresciallo De Simone.
“Il maresciallo è presente, chi devo dire?” fa con solerzia il piantone.
“Gli dica che c’è il suo amico Gennaro Platone in compagnia di Ciro, Ciro Aristotele…”
“All’udire questi nomi il carabiniere è rimasto un po’ perplesso…ma Gennaro e Ciro sono abituati a queste reazioni.
“Il Maresciallo vi aspetta: secondo piano, stanza 25 a sinistra dalle scale”.
“Grazie”.
Il piantone apre la porta e i due salgono le scale.
“È permesso sig. maresciallo?” Dice Gennaro con voce sussiegosa, bussando alla porta socchiusa della stanza. “ Trase Gennà, senza fa o scemo, trase!”
“Ciao Alfò, cumme staje?” “Buono Gennà, buono, ringrazziamme Dio”.
“Questo è Ciro Aristotele, l’amico pizzaiolo”:
“Ah chiste è l’ate filosofe, piacere assaie. Assettateve”.
Dopo alcuni convenevoli Gennaro chiede al maresciallo se gli può fare una cortesia.
“Dimmi pure Gennà, se posso, volentieri!”
Gennaro fa un breve riassunto della storia senza tralasciare nulla.
“Però che storia interessante e …fruttuosa!” Dice il maresciallo interrompendo Gennaro
“Già Alfò”. Replica
“Detto questo, vengo al punto. Noi vorremmo ringraziare quella simpatica signora che ci ha consentito, grazie alle intuizioni di Ciro ed alla sua fede cieca nei numeri, di vincere un terno. Ma non conoscendo nulla della donna, nemmeno il suo nome, ho pensato a te. Controllare i numeri della targa per vedere a chi corrisponde dovrebbe essere una cosa semplice per voi, dopodiché possiamo contattarla, ringraziarla e farle un omaggio, che so’: un bel mazzo di fiori…”
“Si può fare Gennà, dammi la targa che mi collego con il computer della Motorizzazione e vediamo di chi è questa Audi d’annata!”
“Bene, così lo sappiamo subito, grazie”.
“Se non ci sono problemi, in pochi minuti sappiamo tutto della signora barese, eh, eh!”
Il maresciallo entra nell’archivio della motorizzazione, inserisce provincia e numeri e invia la richiesta.
Trascorrono un po’ di secondi…
“Strano- dice il maresciallo- le risposte di solito sono molto veloci…ci sarà traffico su questo archivio”.
Tutti e tre restano in attesa, Gennaro e Ciro si scambiano uno sguardo, senza parlare.
“Ecco la risposta! Ora capisco perché ci ha messo tanto, non l’ha trovata e la ricerca è stata lunga. Siete sicuri che la targa sia quella giusta?”
“Alfò non ci sono dubbi, la macchina era parcheggiata, l’abbiamo guardata da tutti i lati perché stava in ottime condizioni e la targa l’abbiamo vista e letta più volte, senza contare che Ciro con i numeri ci sa fare!”
“Allora faccio un altro tentativo”. Dice accomodante il maresciallo.
“Niente da fare guagliò, quando o computer risponde accussì vuol dire che sta targa nun esiste cchiù! Non sarà falsa?”
“Non ci sono altre possibilità di controllo?” “No, non ci sono!” Risponde perentorio De Simone.
“Ho capito Alfò, nun sacce che dirti, forse ce simme sbagliati. Non può essere che accussì!”
“E sbagliando avite pure fatto u terno? Ma chesto è propre ‘no culo tante…”
“Beh, pe’ ‘na vota inte a vita simme state furtunate eh Ciro?”
“E già furtunate, avive a sbaglià e nummere pe’ vencere. Si o sapevo primma…chissà quante denare avisse fatte!”
“Alfò te ringraziamme pe’ a curtesia, mò ce ne jamme, statte buono e saluti a casa”.
“Grazie Gennà e arrivederci”.
Gennaro e Ciro escono da San Vitale in silenzio. Nelle loro menti si accavallano i pensieri più strani e le spiegazioni più strambe.
Dopo pochi minuti iniziano a parlare simultaneamente…
“Uè Gennà simme sempe in sintonia eh?”
Già Ciro chesto almeno è overo!”
“Ma…tu che penze ‘e tutta chesta storia?”
“Ch’agge a penzà Ciro…nun ‘ngarro a penza a niente. So confuso, incredulo, meravigliato, sbigottito inzomma so into ‘o pallone e o cerviello se rifiuta d’accettà cheste cose…ma nun trova nisciuna spiegazione.
“Già accussì è!”.
“Ma tu che penze d’a signora di Bari? Noje ‘o sapimme de nun avé sbagliato i nummeri d’a targa e si sta targa nun esiste, nun esiste manco ‘a signora? Che c’è succiesse? Chi era chella femmena e chella macchina? Nuje ce simme saliti in coppe… Era ‘na fata, nu angelo o ‘a Befana? Maronna mia me sta a scuppià ‘a capa!”
“Ciro nun sacce che dirti…” Il discorso si fa serio e Gennaro prosegue in italiano.
“Per la prima volta in vita mia sono protagonista di un fatto irrazionale, innaturale, senza senso: la dolce signora che ci “appare” dopo aver parlato del Natale; noi che l’accompagniamo a comprare i pezzi del presepe; tu che intuisci il significato dei numeri della targa…Tutto questo era già abbastanza strano e poi scopriamo che quella targa e quella macchina non esistono e forse neppure la proprietaria, ammesso che fosse la sua”.
“E allora?” Interrompe Ciro con evidente ansia.
“E allora, e allora…io non credo alle favole, ai miracoli e simili…sono filosofo, sono razionale e non posso accettare tutto questo ma…poiché questo fatto è vero e l’ho vissuto, non posso dire che è solo fantasia, suggestione o altro, ma non riesco a trovare nessuna spiegazione”.
“Gennà nun t’arravoglià o cerviello, forse avimme incontrato ‘a Befana dei filosofi che ce vuleva fa passà nu belle Natale! Nun ce facimme o sanghe amaro e nemmeno schiattà a capa pe capì ch’è succiesse! Ringrazziamme chi vuò tu e turnamme a casa e speramme che ce danne ‘e denare primma e Natale”.
“Ma…Ciro…”.
“Gennà mò basta! Lasse perdere, nun ce penzà cchiù. O cerviello toie, te capisco, è chiuso a ste cose ma o portafoglio s’arape ai denare ch’è vinciuto, né Gennà?”
Questa battuta semplice quanto profonda, scuote l’atmosfera creatasi.
“Ave raggione Ciro, ave propre raggione e c’agge a dì e cchiù se non Buon Natale!”
“Buon Natale Gennaro!”
LA CHIAVE DEL PRINCIPE
Gennaro Platone ha ricevuto una telefonata dall’amico Luigi, ’o scarparo, in cui gli ha chiesto di raggiungerlo, appena possibile, al negozio.
Luigi, comunemente chiamato ‘o scarparo, che di cognome fa Scarpetta, è un bravo artigiano nel fare le scarpe su misura, come tutti i suoi antenati, da circa tre secoli. Da quando queste sono diventate un lusso che si possono permettere in pochi, si è dato anche al commercio delle calzature prodotte dalle fabbriche, ma sempre di buona qualità, in un negozio attiguo al suo laboratorio, tuttora funzionante.
Gennaro lo conosce da tanti anni e lo stima. Lo accomuna, inoltre, la circostanza che i rispettivi cognomi hanno influenzato le loro vite: calzolaio, Luigi, per tradizione familiare, filosofo o presunto tale, Gennaro, per quell’importante cognome che si rifà al grande filosofo Greco.
“Chissà cosa vorrà dirmi Luigi, per chiamarmi con una certa premura…quando c’incontriamo così spesso…Mah!”
Pochi minuti ed arriva al negozio di Luigi.
“Né Genna’, trase, jamme rinto o laboratorio, tanto rinto a puteca ce sta Giuseppe”.
Il laboratorio è un locale buio, piuttosto in disordine dove oltre al desco per lavorare le scarpe ci sono numerosi piccoli mobili con tutti gli attrezzi del mestiere, alcuni vecchi di secoli, il cuoio per le suole, tomaie di vario tipo e su tutto aleggia l’inconfondibile odore della colla dei calzolai, che ha impregnato anche i muri.
“Ciao Luigi…jamme arrete!”
“Assettammece, Gennà”.
“Cumme staje…tutto buone, no?”
“Sì, Luì. M’avisse chiamate pe’ chesto, pe’ sape’ d’a salute mia?”
“No! Certo ca nò. E chi t’accide… a te!”
“Maronne, m’aggia tuccà, Luì!”
No, no. Mò parlamme seriamente!”
Luigi assume un’espressione severa, come chi si appresta a parlare di cose molto importanti e, come è solito fare Gennaro, quando discetta di filosofia, parla in italiano, abbandonando, quasi del tutto, il dialetto.
Si accomoda meglio sulla sedia, si accende una sigaretta e:
“Gennaro tu sai che mio padre Antonio faceva il calzolaio, così mio nonno, il nonno di mio nonno e così di seguito almeno fino al 1700”.
“Sì, lo so. Anche il tuo cognome deriva dal mestiere dei tuoi antenati, come il mio deriva dalla scienza dei miei”. Risponde, non senza un pizzico d’orgoglio, per far risaltare la differenza.
Luigi aggrotta un po’ le sopracciglia, avendo percepito l’ironia dell’affermazione di Gennaro, ma continua senza dargli peso.
“Il mio avo, vissuto nel 1700, era molto bravo a fare le scarpe ed aveva tra i suoi clienti tutti i signori di Napoli, tra i quali anche Raimondo di Sangro VII principe di San Severo, quello che ristrutturò ed arricchì di opere d’arte, tra cui il Cristo velato, l’antica cappella detta “’a Pietatella”.
“Però! Pure ‘o stregone se faciva fa ‘e scarpe e, dimme, ‘e faciva pure ai muorte che “trattava”. Replica Gennaro, con evidente ironia.
“Genna’, jamme, nun pazzià c’a cosa è seria assaje!” Gli risponde stizzito Luigi.
“Allora come dicevo. L’attività del mio avo che, per tanti anni aveva fatto scarpe e stivali di ottima fattura, gli procurò la stima del Principe, al punto tale che, poco prima di morire, lo mandò a chiamare, forse presagendo la sua fine – era un uomo dotato di qualità e poteri straordinari- per affidargli una scatola di legno lavorato, con dentro una chiave di una cassa in cui erano depositati gli scritti ed i disegni di quasi tutte le sue invenzioni, le sue attività alchemiche ed altro, frutto del suo poderoso ingegno”.
“Perché proprio a lui?” Fa Gennaro con tono meravigliato “Nu grand’ommo che dà nu tesoro a ‘o scarparo!”
“Per quello che mi ha raccontato papà ed a lui tramandato dal nonno e così via, sembra che per le sue vicissitudini personali, con la Chiesa, il re, perché Massone e per le accuse di stregoneria, di uso illecito dell’alchimia, di ateismo e quant’altro, non si fidasse più di nessuno, parenti od amici che fossero. Tanto da affidare al mio avo la chiave del suo tesoro”.
Il racconto si fa interessante e Luigi prende una pausa, per riorganizzare le idee e proseguire.
“Il patto che il Principe fece con l’avo, consisteva nel custodire gelosamente la scatola e di non darla a nessuno, finché non si fosse trovata una persona di grande moralità, sapienza e cultura che avrebbe potuto trarre il massimo beneficio dal suo contenuto, senza usarlo per scopi malvagi, come sarebbe accaduto con i suoi parenti, con la formula della pietra filosofale!”
“No! Non mi dire che nella cassetta c’è anche la formula della pietra filosofale! Non ci credo!” Replica stupito Gennaro.
“Gennaro io ripeto solo quello che mi hanno raccontato”.
“Il mio trisavolo, impaurito ed intimidito dalla personalità del Principe, accettò l’incarico e custodì gelosamente la scatola con la chiave, rivelandone il segreto solo al proprio figlio e di figlio in figlio, fino ai giorni nostri”. Luigi si prende un’altra pausa, poi continua.
“La cassa in questione, nessuno sa dov’è, se non che è dentro la Cappella dei San Severo e che solo chi sarebbe stato degno di ricevere la chiave, sarebbe stato in grado di scoprire in quale punto di essa è nascosta!”
“Sono trascorsi 236 anni e la chiave è rimasta in custodia della mia famiglia, come la tradizione di fare le calzature!”
“Luigi, mi hai raccontato una bella storia e guarda caso, non molto tempo fa, ho parlato del Principe di San Severo con Ciro Aristotele, spiegandogli la storia della Pietatella, del Cristo velato e della pietra filosofale, ipotizzando che il Principe, così bravo com’era se ne fosse occupato anche lui e tu, ora, quasi me lo confermi. Pensa, se ci fosse dentro la formula sarebbe una scoperta eccezionale che potrebbe portare ricchezza e felicità all’umanità!” A questo punto Gennaro riprende il fiato per l’emozione del racconto di Luigi.
“Ma dimmi Luigi, come mai nessuno ha mai provato a cercare la cassa?”
“Gennaro, che ti devo dire…nessuno di noi ci ha mai provato, la figura del Principe, la sua fama sinistra per le sue stregonerie e per la sua vicinanza con il Diavolo…”. Mentre pronuncia queste parole Luigi si fa il segno della Croce. “…suscitava tanta di quella paura nei miei antenati che non cercarono nessuno che potesse degnamente averla e nemmeno se ne sbarazzarono per la gran paura di essere colpiti dalla maledizione del Principe. Di padre in figlio, questa “consegna” fu tramandata, diventando sempre più una leggenda di famiglia, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di fare nulla, non si sa mai! Ed ora questa maledetta chiave ce l’ho io, che sono l’ultimo della famiglia e non ho figli a cui far continuare la tradizione!”
Luigi s’interrompe bruscamente, si alza di scatto e va verso il retrobottega.
“Giuse’ che stai facenno cà, perché nun stai into a puteca eh? Si trase nu cliente, nun ce trova nisciuno e nun vennimme niente!”
Giuseppe imbarazzato, farfuglia qualche scusa, ma Luigi lo spedisce in negozio, piuttosto seccato.
Quando torna a sedersi, mi dice:
“Questo ragazzo s’ave a scetà! Lo devo controllare spesso sennò nun fatiga”:
“Mandalo via e prendine un altro a lavorare come commesso”.
“Bravo, dici bbuone tu, ma Giuseppe me l’hanno “raccomandato” quelli della famiglia Abbate e tu sai chi so’ e l’agge dovuto piglià cu me…ch’aveva a fa?”
“Torniamo alla chiave “. Gli dice Gennaro tradendo la sua crescente curiosità.
“Perché ora mi hai raccontato questa storia, dopo tanti anni che ci conosciamo?”
“Caro Gennaro io sono molto più grande di te e, prima o poi…a qualcuno di cui mi possa fidare la dovrò pur lasciare questa chiave!” Gli dice ammiccando un sorriso e prosegue:
“Conosco il tuo amore per Napoli, la tua passione per la filosofia e la tua onestà. Penso che tu sia la persona giusta cui si riferiva il principe!” Dice Luigi guardandolo compiaciuto.
“Uè Luì, nun pazziamme, io so’ un finto filosofo, non sono quello che credi tu e la mia filosofia è molto spicciola è più un modo di pensare e di vivere che una vera scienza. Il mio cognome ha stimolato prima la mia curiosità poi trasformatasi in interesse per la filosofia, così mi diverto a questionare con Ciro Aristotele, il pizzaiolo che tu conosci, ma niente di più!”
“Va bbuono, cumme è …è, io di te mi fido e ti ho raccontato questo segreto. Trovala tu, allora, la persona degna di aprire ‘a cascia, così facimme cuntento ‘o Principe e sta storia fernisce! Sempre che ‘a cascia esista e si trovi!”.
“Luì, questo lo posso fare, qualcuno lo conosco, mi guarderò in giro, indagherò e ti farò sapere…”.
“Grazie Genna’…un ultimo favore…”
“Dimmi”
“Ti chiedo di prenderti ora la scatola con la chiave, così appena trovi la persona adatta gliela dai subito”.
“Né Luì, ho l’impressione che sta buatta te stesse abbruciando ‘e mane, è overo?”
“Sì, Genna’ nun a posse cchiù verè!”
“Va bbuono Lui’, dammella, accussì nun ce pienze cchiù!”
Luigi si allontana pochi istanti e torna con la scatola, l’apre e Gennaro può vedere la grossa chiave di fattura antica, poggiata su un pezzo di velluto nero, che mostra anch’esso i segni del tempo.
“Luigi dammi una busta del negozio, una scatola delle scarpe ed un po’ di carta per imbottirla che ci mettiamo dentro questo prezioso scrigno”.
“Genna’ nun pazzià…sto scrigno come lo chiami tu appartiene alla mia famiglia da quasi due secoli e mezzo e poi cu ‘o Principe io non scherzerei troppo!”
“Ave raggione Luì, scusa, ma è ‘na storia accussì fantasiosa…”.
Sistemata la scatola Gennaro esce dalla porta del laboratorio che dà nell’androne del palazzo.
Mentre si reca a casa, nell’ordinaria confusione di Napoli, non può fare a meno di ripensare a tutta la storia ed alla sua stranezza e soprattutto alla strana coincidenza della sua recente discussione con Ciro, riguardante proprio il principe di San Severo e la sua Cappella.
“Quasi fosse una premonizione!” Pronuncia a voce alta, sorridendo.
Il giorno dopo Gennaro, dopo aver fatto molte considerazioni sulla storia di Luigi, torna al negozio, nella speranza di avere altre informazioni, per le quali si è preparato delle domande.
Appena voltato l’angolo della strada in cui c’è il negozio, Ciro vede una gran quantità di persone in mezzo alla strada e diverse auto dei Carabinieri…
“Ch’è succiesso?” Chiede al primo che incontra.
“Hanno ammazzato Luigi ‘o scarparo, into a puteca”.
“Maronna mia e pecché?”
“Paresse durante ‘na rapina”
“O Gesù, Luigi, Luigi!”
Gennaro corre verso il negozio, ma nessuno può superare il cordone dei carabinieri. Si guarda intorno e riconosce il suo amico carabiniere e lo chiama:
“Alfò, Alfò, vutate, so’ io, Gennaro!”
Alfonso De Simone, maresciallo di prima classe dell’arma, si gira, riconosce l’amico, si avvicina e lo fa passare.
“E tu che ce fai cà!” Gli dice salutandolo
“Mò t’o dico. Ma dimme prima di Luigi. Overo è muorte?”
“Sì, una rapina andata male, forse ha reagito e il balordo o i balordi l’hanno accise a mazzate!”
“Tu o conoscevi?”
“Ieri siamo stati insieme un paio d’ore…m’aveva chiamato lui, per parlare”.
“Overo, t’ha chiamato lui…per parlare…”. De Simone lo prende sottobraccio e:
“Trasimme into a puteca, tanto il cadavere è già stato rimosso, ci mettiamo da una parte per non intralciare i rilievi e mi parli di Scarpetta e del perché ieri ti ha cercato. Ora chiamo anche il tenente Tavaro, titolare dell’indagine, vediamo se ci puoi dare qualche informazione interessante”.Il maresciallo torna poco dopo in compagnia del Tenente, un giovane aitante e molto compreso del suo ruolo.
“Sig. tenente, questo signore è Gennaro Platone, un amico che conosco da molti anni. Egli è …era amico anche della vittima. Proprio ieri è venuto qua, nel negozio, perché lo Scarpetta voleva parlargli, con una certa urgenza, mi sembra di aver capito, vero Ciro, di una cosa importante”.
“Sì, vero Alfonso e la sua premura mi è sembrata strana, anche se penso che il colloquio di ieri non abbia nulla a che fare con l’omicidio avvenuto in seguito alla rapina”.
“Questo lo lasci decidere a noi sig. Platone. In un caso d’omicidio qualsiasi fatto, anche minimo, potrebbe avere la sua importanza…e poi non è detto che ci troviamo di fronte ad una rapina, anche se ne ha tutta l’aria!” Replica il tenente non senza un po’ di prosopopea che indispettisce Gennaro.
“Allora signor tenente se lei mi aggiorna è probabile che io riesca anche ad essere più utile per le indagini. Oltretutto, Luigi era…un amico di vecchia data e ci frequentavamo spesso e se c’è qualcosa che lei sa più di quanto non mi ha detto il maresciallo De Simone, la prego di dirmela! Grazie!” La risposta decisa di Gennaro ha colpito l’ufficiale, abituato a gestire le indagini con piglio deciso e con persone sempre remissive dinnanzi a sé.
“Certo, ha ragione. La informo subito sullo stato delle indagini, a poche ore dal delitto che è avvenuto all’apertura del negozio”. Risponde con tono più colloquiale l’ufficiale.
“Quello che in un primo momento ci era sembrata una rapina finita male per la reazione del rapinato, ora non ci convince più molto. L’ambiente dove è avvenuto il delitto è sottosopra, non solo per la colluttazione, ma anche perché il o i rapinatori hanno cercato di rubare tutto quello che potevano, mettendo a soqquadro ogni cosa, ma nel corso del minuzioso sopralluogo che abbiamo effettuato abbiamo trovato oggetti di valore ed anche del denaro in un cassetto, che a dei rapinatori veri non sarebbero sfuggiti. Il che ci fa propendere per una messa in scena successiva alla morte, forse non voluta ed imprevista, causata dallo choc. Questo sarà l’autopsia a stabilirlo con certezza”.
L’ufficiale si ferma un attimo, poi aggiunge:
“Io ho la netta sensazione che cercassero qualche altra cosa e che per farsela dare abbiano malmenato lo Scarpetta…che poi è morto senza dirgli dove si trova. Quindi hanno buttato tutto all’aria per cercarla finché son dovuti scappare da quella porta sull’androne del palazzo, quando sono giunti i due commessi del negozio… come si chiamano maresciallo?”
“Giuseppe Alfano e Concetta Scaramella, il primo lavora nel negozio da poco tempo e coadiuva la signora Concetta che lavora con Scarpetta, da tanti anni…”.
“Ecco, signor Platone questo è quanto, credo che lei sia soddisfatto. Ora mi dica di cosa avete parlato ieri lei e Scarpetta”.
“Farò di più signor tenente, forse ho la chiave per arrivare all’assassino. Mentre lei mi esprimeva i suoi dubbi su come sono andate le cose, mi si è accesa come una lucetta nella mia mente, peraltro abituata a ragionare, dilettandomi io di filosofia…”. Appena detto ciò De Simone gli lancia un’occhiata fulminante, ben conoscendo le sue qualità filosofiche.
“Ehm, dicevo sig. Tenente che forse il bandolo sta proprio nel colloquio che ho avuto ieri con Luigi”.
In pochi minuti Gennaro riferisce sulla conversazione avuta, senza tralasciar nulla, tranne il particolare che Luigi gli aveva consegnata la scatola con la chiave. Questo glielo doveva in segno di rispetto e di ringraziamento per la fiducia che in lui aveva riposto.
Nel riferire il colloquio con Luigi aveva evidenziato che, ad un certo punto, lui si era alzato ed aveva trovato Giuseppe dietro la porta sita tra il laboratorio ed il retro del negozio, senza che fosse in grado di giustificare cosa vi stesse facendo.
“Ecco, signor tenente, io sono sicuro che abbia ascoltato tutto sulla chiave, sul principe e sull’importanza della cassa che essa dovrebbe aprire, che Luigi aveva ipotizzato essere di gran valore dicendo che, forse, insieme alle altre carte c’era anche la formula della pietra filosofale!”
L’ufficiale rimane interdetto, ma continua ad ascoltare.
“Luigi mi ha detto che Giuseppe non è tanto sveglio, ma non credo che sia tanto stupido da non capire che stava parlando seriamente e di una cosa preziosa”.
“Secondo lei, allora sarebbe stato Giuseppe?” Domanda incalzando il tenente.
“No, non dico questo, ma indirettamente e senza volerlo può esserne stato la causa”.
“E come ?” Dice il Maresciallo.
“Luigi, quando mi ha detto che il ragazzo non è sveglio e che gli doveva sempre stare dietro, gli ho chiesto il perché non lo mandasse via ed assumesse uno più valido. Volete sapere come mi ha risposto?” Domanda compiaciuto Gennaro lasciando la domanda in sospeso, tant’è che:
“Certo che lo vogliamo sapere”. Dice il maresciallo, all’unisono con il suo superiore.
“Jamme, fernisce e cuntà”. Fa il sottufficiale, abbandonando, per un momento, la sua compostezza e l’italiano.
“Luigi mi ha detto che Giuseppe gli è stato “raccomandato”, voi mi capite, dalla famiglia Abbate e che non poteva far altro che tenerselo e sopportare!”
“La famiglia Abbate”. Ripete il maresciallo. “Signor tenente la famiglia Abbate!”
“Ho capito marescià, ho capito!” Risponde piccato l’ufficiale.
“Quindi, lei sig. Gennaro mi sta suggerendo che il responsabile di quest’omicidio lo dobbiamo cercare nel clan degli Abbate, ad uno dei quali Giuseppe avrebbe riferito quello che Scarpetta ha detto a lei!”
“Sissignore, signor tenente, propre accussì!”
“Ma, questa chiave non siamo sicuri se l’hanno trovata o no!”
“Non l’hanno trovata, non era qui e Luigi non mi ha detto dove si trova, mi ha detto solo che prima o poi l’avrebbe data a me, perché solo di me si fidava”.
“Sig. Platone, la ringrazio tanto, lei ci è stato molto utile, ora le nostre indagini possono prendere una direzione precisa. Può anche andare, ma si tenga a disposizione. Arrivederci.”
“Tutto d’un piezzo u giuvinotto, né Alfò?”
“Sì Genna’, ma è nu bravo ufficiale, che sape o fatto soje!”
“Ce verimme Alfò. Famme sape’ si c’è quaccosa di nuovo”.
“Statte buono Genna’, ca te tengo ‘nfurmato! Ciao”.
Più tardi nei locali della stazione di S. Vitale, il tenente Tavaro, indice una riunione con i suoi uomini, per coordinare l’indagine.
L’ufficiale ha ordinato ai suoi uomini di organizzare un pedinamento discreto di Alfano Giuseppe, fotografando ed identificando tutti coloro con cui viene in contatto, nella speranza di arrivare all’autore o agli autori dell’omicidio. Il tenente, però, grazie al suo istinto, ritiene che sia uno solo il responsabile.
“Ragazzi, sarà un lavoro, forse, lungo ma, se fatto con cura e pazienza, vedrete che ci darà i suoi frutti. Tra l’altro non dimenticate di osservare se coloro che avranno contatti con Giuseppe, mostrino graffi, ecchimosi od altri segni conseguenti ad una colluttazione. Sappiamo per certo che Scarpetta, prima di morire ha lottato e ha lasciato qualche segno addosso al suo omicida, questo lo conferma l’anatomo patologo che ha fatto l’autopsia, perché ha rilevato tracce di tessuti e capelli che non sono della vittima, in particolare sotto le unghie e appena avremo il risultato del DNA da quelli del RIS di Roma, ci sarà più facile confrontarlo con quello di coloro che mostrano ferite anche lievi. Ci siamo intesi?“ Li guarda uno per uno e continua:
“Ricapitolo: controllo meticoloso e minuzioso di tutte le persone che s’incontrano con Alfano Giuseppe; verificare se hanno ferite o contusioni, in caso affermativo cercate di prelevare qualcosa da cui si possa rilevare il DNA, sigarette, bicchieri e quant’altro, non siete mica dei pivelli, queste cose ormai, le conoscete benissimo. Per quanto ovvio, se dovete prendere campioni od oggetti per rilevare il DNA, non fatevi accorgere da nessuno, controllate bene prima, perché sappiamo che gli “amici” degli Abbate hanno occhi ed orecchi dappertutto! So, pertanto, di poter contare sulla vostra sperimentata professionalità. Buon lavoro a tutti!”
Tutti i militi presenti rispondono al saluto dell’ufficiale e iniziano ad organizzare i turni del pedinamento.
“De Simone!”
“Agli ordini signor tenente”. Risponde impettito il maresciallo.
“Marescià, non siate esagerato, per piacere, siamo tra noi in ufficio…”.
“Scusi sig. tenente, grazie, ma la forza dell’abitudine…”.
“Sì, sì, va bene ho capito. Ora noi due dobbiamo fare un bel lavoro di raccolta di tutti i dati che abbiamo sul clan degli Abbate, sugli appartenenti, sugli affiliati… qualsiasi cosa insomma venga fuori dai nostri archivi e da quelli della Polizia”.
“Va bene signor tenente”.
“Ecco, bravo, mettiamoci al lavoro”.
Da quest’accurato ed approfondito lavoro i due investigatori traggono un elenco di persone con tanto di fotografie, perché si tratta di soggetti tutti schedati e la maggior parte anche pregiudicati.
Appena possibile, copia di questo elenco, è data ai militi che si occupano di controllare le mosse e le amicizie di Alfano.
L’esame di questo materiale e la sua comparazione con i primi elementi dei controlli sui movimenti di Alfano, danno origine ad un elenco più preciso e ristretto sul quale dedicare maggiore attenzione. Una sola persona, vista già più volte incontrare l’Alfano, non risulta schedata. Le foto scattatele hanno consentito di arrivare alla sua identità che ha destato una certa sorpresa negli inquirenti: si tratta di Abbate Michele, il più giovane della famiglia, figlio di uno dei boss, Vincenzo e nipote degli altri membri del clan. La sorpresa è stata tanto più grande, quando elaborando le foto al computer, si sono evidenziate delle ferite sul collo, delle strisce rosse parallele, tipici segni di un graffio. I segni non sono molto visibili, perché una folta capigliatura li copre in parte e ciò ha impedito al carabiniere che l’ha fotografato di averne un’immediata percezione, che, però, non è sfuggita all’esame del computer.
“Maresciallo, avete visto eh, grazie alla tecnica digitale non sfugge più niente, senza di questa ancora pochi giorni e nessuno se ne sarebbe accorto!”
“Vero sig. tenente, ‘o computer è ‘na cosa grande… pure pe’ nuje!” Risponde con enfasi il De Simone, soddisfatto di compiacere al suo superiore.
“Bravo maresciallo, avete ragione”. Gli risponde il tenente, con un’occhiata indulgente, il cui significato non è percepito dal sottufficiale.
“Tuttavia, questo è solo un indizio, andiamo avanti finché abbiamo la situazione di tutti i “contatti” di Alfano e poi, ci muoveremo di conseguenza… non sarebbe male, però, che qualcuno dei nostri riesca a prelevare un campione biologico di questo ragazzo, con la massima attenzione, anche perché è un ragazzo e non ha alcun precedente”. Finita questa frase, il tenente rimane a fissare il maresciallo.
“Marescià, allora? Mi avete ascoltato o no?” Gli chiede con tono autoritario.
“Certo, sig. tenente, certo che l’ho ascoltata e… ha ragione bisogna essere cauti, molto cauti”.
“Marescià, questo l’ho già detto io! Volevo solo sapere da lei chi sia il più adatto a prelevare il campione biologico?”
“Ah, sì, sì, ho capito, mi lasci pensare… Nicola, il brigadiere Zarrillo Nicola, esperto e valido elemento, penso che lui sia il più idoneo a fare una cosa del genere, senza rischiare di fare passi falsi!”
“Bravo maresciallo, stavo pensando anch’io a lui, vedo che siamo d’accordo anche nel valutare gli uomini, bravo!”
“Grazie signor tenente”. Risponde con enfasi De Simone e con evidente orgoglio.
“Bene! Lo chiami e lo istruisca in merito!”
“Ai suoi ordini sig. tenente!” Il maresciallo De Simone saluta e lascia soddisfatto l’ufficio del suo superiore.
“Covino, hai visto il brigadiere Zarrillo?”
“No, marescià, oggi nun l’agge visto, starà continuando il pedinamento di Alfano”.
“Cercamelo e digli che gli devo parlare!”
“Agli ordini, marescià!”
Dopo circa due ore, il brigadiere si presenta dal maresciallo De Simone.
“M’avete cercato marescià?”
“Sì, Zarrillo, assettate!” Poi, con un’aria molto professionale, fa:
“Zarrillo io ed il sig. tenente abbiamo pensato di affidarti una missione delicata, perché riteniamo che solo tu sia in grado di compierla bene”. Un sorriso compiacente e accattivante appare sul volto del maresciallo a conclusione di questa frase.
“Onorato marescià! Dicite pure c’aggia a fa’!”
“Zarrillo, so’ diversi juorne che tu staje a pedina’ Alfano… mò nuje, o’ tenente ed io, simme giunte a ‘na concrusione che o guaglione degli Abbate ce trase quacche cosa cu ‘a muorte d’o scarparo. ‘E foto che gl’avite fatto fanno vedé dei scippe in coppe ‘o cuollo e la cosa è suspietta!”
“E già, è chillo che cercavamo.”
“Infatti! Ora si tratta de piglià un campione biologico per truvà ‘o DNA, senza fasse accuorgere, da nisciuno, ed avvimme pensato a te!”
“Nun ve preoccupate, io, certe cose e sacce fa bbuone! Accumenze subbeto”.
“Bravo, vai, so’ sicure e te, vai, vai”.
“Agli ordini marescià”.
Zarrillo infila la porta dell’ufficio e si mette subito al lavoro. Riguarda gli appunti presi nei giorni scorsi sugli incontri tra Alfano e Abbate e decide quello che deve fare confidando nella fortuna di poterlo incontrare presto e, soprattutto, di potere avere l’occasione giusta per il prelievo, magari una cicca, visto che fuma.
Il giorno dopo, sempre pedinando Alfano, si presenta l’occasione sperata.
Appena uscito da casa, Alfano riceve una telefonata e subito dopo s’avvia con passo deciso, come se avesse una certa urgenza. Una diecina di minuti e Alfano arriva a piazza Politeama, si ferma quasi al centro e comincia a guardarsi intorno con un certo nervosismo. Pochi minuti e viene raggiunto da un ragazzo che Zarrillo riconosce subito:
”È Michele, Michele Abbate, ce simme!” Resta a debita distanza ad osservare i due.
“Ciao Giusé, cumme staje, tutte buono?” Fa Abbate, già con l’aria di un boss.
“Sì, Miché, tutto bbuono, tranne o fatte c’agge perso ‘o lavoro!” Risponde ingenuamente Giuseppe.
“Nun t’aggità, Giusé, o ssai che cu nuje, se sii nu brave guaglione, nun pierde niente, no?”
“Pecché tu…sii ‘nu brave guaglione, no?” Mentre gli dice questa frase gli carezza il viso con una certa energia, con un gesto palesemente intimidatorio.
“Pecché si tu nun faje o brave guaglione, ‘o sai che te po’ capità , no?”
“Certo, certo c’o sacce, mica so sciemo o inzallanute!” Risponde con sincerità Giuseppe.
“’O sacce, Giusé, o sacce che sii brave, nun tante intelliggente, ma bravo, sì. Ora, dimme ‘na cosa, i carabbinieri che t’hanno dumannato su a muorte d’o’ scaparo? Sii priciso e nun te scurdà e niente!”
“Che m’hanno dumannato… Miché, si avivo visto quaccheruno o quaccosa c’a puteva fa capì chi fusse state a accirere Luigi… ma io n’agge viste niente, né sentute niente, veramente. Anzi nun me riesco a capacità chi putesse essere stu fetente c’ha acciso o prencepale mio!”.
Questa affermazione inattesa di Giuseppe stupisce Michele, che si rende conto che la sua mente debole non è stata sfiorata nemmeno lontanamente dal dubbio. Troppo ingenuo e sempliciotto per pensare una cosa del genere.
“Miché, ma pecché vulive sapé ste ccose. Tu m’hai chiamate pe’ cheste?”
“Sì, Giuseppe, vulevo esse sicuro che tu nun ce trasisse niente dinto a ‘sta facenna…mi fosse dispiaciuto assaie!” Risponde dissimulando Michele, convinto della sincerità di Giuseppe.
“E carabbinieri nun t’hanne chiammate cchiù, allora?”
“No, Gesù e pecché mai?”
“Già…e pecché mai!” Gli fa eco Michele.
< Vulisse sapé, cumme maje i carabbinieri se stanne interessanne d’a famiglia mia. Nun puozze nemmeno dumannà a chiste si canusceva a persona che steve parlanno co’ ‘o scarparo, o si l’avisse vista. Avisse a capì che io ce trase inte a sta storia, meglio nun arresecà…Nun l’agge cuntrarià…>.
Dopo aver fatto questa veloce considerazione:
“Sì propre nu bravo guaglione! Jamme che te pavo o café.
Michele prende sotto braccio Giuseppe e si avviano verso il primo bar che trovano.
Il brigadiere Zarrillo, che ha seguito la scena con attenzione, gli si mette dietro a debita distanza per vedere ora cosa succede. Quando poco dopo li vede entrare in un bar, ha un sussulto:
“Ce simmo, ora o mai più, se vanno dinto o bar se pigliaranno ammeno nu cafè, aroppo o cafè na sigaretta…Na cosa o n’atra so’ strunze si nun ‘ngarro. Jamme trasite dinto, trasite…”
Michele e Giuseppe entrano nel bar, subito dopo anche il brigadiere che aspetta di vedere che fanno.
“Doje caffè, pe’ piacere!” Chiede con fare disinvolto Michele.
“Vulisse pure ‘na brioche, né Giusé?”
“Pure ‘na brioche p’ammico mio!”
“Grazie Miché, pure tu si brave assaje!”
Zarrillo, con in tasca già pronta la bustina per sigillare la tazzina del caffè, si avvicina al bancone ed ordina una caffè ed una brioche, anche lui.
Arrivati i caffè, Zarrillo non perde una mossa di Michele aspettando l’istante giusto per prendere la tazzina. Michele ha preso il caffè e Zarrillo pure, ma non si allontana perché aspetta che Giuseppe abbia finito la brioche.
“Maronna, vulisse vedé che mò o barista toglie a tazzina?” Pensa il brigadiere.
Ma appena pensato questo Giuseppe e Michele si allontanano dal bancone ed il barista fa l’atto di togliere le tazze…
Con una presenza di spirito eccezionale, Zarrillo:
“Guagliò, agge pacienza, me putesse dà n’ata brioche”. Mentre il barista si gira per prendere la brioche nel contenitore termico, con una mossa fulminea il brigadiere sostituisce la sua tazzina con quella di Michele, usando una salvietta di carta del bar e quando comincia a mangiare la seconda brioche, grazie all’allontanamento momentaneo del barista, infila la tazzina nella busta e poi in tasca, paga ed esce di corsa per non perdere di vista Abbate. I due, invece, erano poco fuori il bar a parlare e Michele si è accesa una sigaretta…
“Bene se ci riesco, piglio pure ‘o muzzone” Pensa il brigadiere, mentre si allontana verso una posizione dove può spiare i due senza dare nell’occhio.
Dopo poco Abbate ed Alfano iniziano a camminare e passano quasi davanti a Zarrillo, appena superatolo Michele butta la sigaretta e saluta Giuseppe, per poi sparire nei vicoli adiacenti.
“San Gennà oggi è a jurnata mia, grazie!” E si precipita a recuperare il mozzicone, che con delicatezza inserisce in un’altra bustina dopo averlo infilato con un piccolo puntale.
“Mò quanno retuorno in ufficio ‘o maresciallo sarà cuntento assaje e pure io, c’agge fatte nu bello lavoro!”
Il brigadiere con grande soddisfazione del Tenente e del maresciallo, che gli hanno fatto i complimenti, consegna i reperti e tutto contento fa l’atto di uscire dalla stanza.
“Aspiette nu mumiento Zarrillo che ‘o tenente ti deve affidare un altro incarico!”
“Agli ordini sig. tenente!”
“Brigadiere, la cosa è importante…per fare il prima possibile la mando al Ris di Roma sezione biologia. Attenda il risultato dell’analisi e la comparazione con quello del materiale rinvenuto sotto le unghie dello Scarpetta e poi torni subito qui. Si trovi un graduato che l’accompagni, prenda un’auto e parta subito. Per stasera dovrebbe essere di ritorno e noi saremo qui ad aspettare. Intanto io preavviso i colleghi del RIS”.
“Agli ordini tenente!”.
Il brigadiere saluta impettito e dopo pochi minuti è già sull’auto di servizio guidata dall’appuntato Gargiulo.
Il Ris di Roma preavvertito in anticipo di questo esame urgente, non ha perso tempo, appena il brigadiere ha consegnato i reperti, sono stati affidati al primo laboratorio della sezione. Il tempo tecnico per estrarre il materiale organico da entrambi, esso, poi, è trasportato al secondo laboratorio dove con la tecnica PRC è amplificato il DNA che, successivamente, nel terzo laboratorio sarà tipizzato. Nell’ultima sezione sarà effettuato i sequenziamento del DNA con dei supporti tecnici modernissimi che formano il settore più moderno della biologia molecolare forense: “Il DNA mitocondriale”.
Tutte queste informazioni sono state fornite al brigadiere da un collega del Ris, lasciando alquanto confuso Zarrillo, più a suo agio nella quotidiana attività investigativa, che con le moderne tecnologie.
In ogni caso, tutte queste novità e la visione di questi laboratori super attrezzati, oltre a fargli passare il tempo lo rendono ancor più orgoglioso di appartenere all’Arma.
Dopo alcune ore i risultati sono pronti, racchiusi in una busta sigillata e consegnata al brigadiere che riprende subito la strada per Napoli e la stazione dei carabinieri di piazza S. Vitale.
Sono circa le 20, quando il brigadiere Zarrillo arriva a S. Vitale. Scende di corsa dalla macchina e va nell’ufficio del tenente Tavaro.
Si dà una sistemata, bussa alla porta:
“Avanti!”
Il brigadiere entra:
“Buonasera sig. tenente, buona sera sig. maresciallo, ecco la busta che contiene i risultati ed il confronto con l’altro esame fatto giorni fa con i reperti dell’autopsia”.
“Bravo, Zarrillo, dai qua!” gli fa l’ufficiale, tradendo l’ansia di conoscere il risultato.
Apre il plico, prende la relazione dei tecnici e…guardando il maresciallo:
“È lui marescià, è lui. Il DNA coincide al 100%!”
“Allora informiamo la procura e facciamoci dare il mandato di cattura!” replica con soddisfazione il maresciallo.
“Marescià, lo dovrebbe sapere che non possiamo, il confronto del DNA lo abbiamo fatto con un metodo irregolare e nessuno deve saperlo, per ora. La convinzione che abbiamo di aver individuato il colpevole, ci dà la possibilità di convincere il giudice a dare l’autorizzazione al prelievo di un campione biologico, dopodiché il gioco è fatto!”
“Come intende procedere sig. tenente?”
“Da domani cominceremo a convocare alcuni degli appartenenti alla famiglia Abbate, per dare l’impressione che ancora non abbiamo le idee precise. La prendiamo un po’ alla larga, poi, pian piano stringiamo il cerchio, fino a convocare pure Michele Abbate, che nel frattempo, diventerà nervoso, perché si sentirà il fiato sul collo. Diremo loro che sospettiamo dell’Alfano, ma che pensiamo che non possa aver fatto da solo e che stiamo cercando il complice. Quando sarà il momento alzeremo la rete e pescheremo il pesce!”
Dal giorno seguente cominciano gli interrogatori dei vari personaggi, si tenta d’intimidirli, si chiede loro se hanno un alibi, poi si lasciano andare in modo che la notizia circoli dentro il clan e giunga ai suoi esponenti e li metta in agitazione.
Dopo alcuni giorni, il tenente ritiene che sia giunto il momento di chiamare Michele Abbate che puntuale si presenta, in compagnia di uno degli avvocati della famiglia, l’avv. Fernando Cuomo, ben noto per essere sempre al confine della legalità pur di compiacere ai boss.
Michele e l’avvocato sono accompagnati nell’ufficio del tenente, una stanza simile a tante altre, dove, oltre agli arredi essenziali, sulle pareti fanno mostra di sé stampe dedicate ad episodi storici dell’Arma, Crest di altre formazioni dei carabinieri e la foto del Presidente della Repubblica.
Il tenente fa accomodare i convenuti e rivolgendosi a Michele:
“Bene, sig. Abbate, vedo che lei è già venuto in compagnia di un legale, anche se questo incontro ha solo un carattere informale, come gli altri dei giorni scorsi…di cui lei è sicuramente venuto a conoscenza, vero?”
“Sì, agge sapute quacche cosa”. Risponde Michele, mostrando un’aria di sufficienza.
“Mi dica…” Incalza il tenente, con il preciso scopo d’intimorirlo. Dietro quella finta scorza c’è sempre un ragazzo di quasi vent’anni.
“Come mai, allora, è venuto accompagnato dall’avvocato?”
L’avv. Cuomo, fa l’atto di voler intervenire, ma il tenente lo blocca prima ancora che possa aprir bocca.
“Avvocà, per piacere, lasci rispondere il suo “assistito”!” Poi, rivolgendosi di nuovo al ragazzo:
“Mi dica… signor Abbate, perché si è portato l’avvocato per un semplice colloquio di routine di un’indagine… ha qualcosa di cui temere?”
“Eh no, sig. tenente, così lei sta impaurendo Michele e questo non lo può fare!” Dice pronto l’avvocato.
“Va bene, come non detto… però aspetto sempre la risposta”.
“Me l’ha detto papà – fatti accompagnare da Cuomo, tu sii nu guaglione e chille so’ tipe insiste, so’ capace pure de farti dicere e ccose che vonno isse! – .“
“E tu da bravo figlio hai obbedito. Bene.” Il tenente fa una pausa, fissa il ragazzo negli occhi e si accorge che fa fatica a sostenere lo sguardo.
< Questo, se ci so fare, crolla anche con l’avvocato!> Pensa il tenente.
“Cominciamo. Avvocato, poiché lei è presente, non ha nulla in contrario se registro la conversazione, vero?”
“No, nulla”. Dice a denti stretti Cuomo.
“Maresciallo accenda pure. Signor Abbate, lei conosce Alfano Giuseppe?”
“Sì, lo conosco!”
“E… come lo definirebbe un conoscente, un amico o cosa?”
“È un amico, ci conosciamo da molti anni. La mamma viene a fare ancora oggi le pulizie a casa nostra e spesso, quand’era piccolo, lo portava con sé” Risponde in corretto italiano, come suggeritogli dall’avvocato prima di entrare: “Miché cerca di essere educato e de nun fa o strafottente e possibilmente di non parlà napulitano, perché fai ‘na cattiva impressione. Ricuordate!”
“Vedo che ha cambiato tono, mi fa piacere, bravo. Quindi, se Giuseppe è un amico v’incontrate spesso?”
“Ogni tanto, tenente, solo ogni tanto, lui lavora tutto il giorno…”.
“Lavorava Michele, lavorava. Il suo datore di lavoro il quindici scorso è stato ammazzato, non si ricorda, lei è qui per quel motivo”. Continua a fissarlo
“È morto, non è stato ammazzato… ” A quest’uscita l’avvocato avrebbe volentieri ammazzato lui e gli dà un calcio al piede destro.
“Non è stato ammazzato e lei come lo sa?”
“… è quello che si dice in giro… dicono che sia morto d’infarto perché si è spaventato per la rapina”:
“Già, so quello che si dice in giro, ma non è proprio così e tra pochi giorni saremo più precisi. Resta il fatto che il povero Scarpetta ha preso un bel po’ di “mazzate”, ma si è pure difeso e qualche traccia dell’aggressore gli è rimasta letteralmente attaccata alle mani e quando avremo il DNA, sarà molto facile scoprire il suo “aggressore/omicida”. Finita la frase, il tenente Tavaro si alza con studiata lentezza, gira intorno alla scrivania, passa vicino a Michele e riprende a fare le domande.
“Allora dal giorno quindici in poi non ha mai incontrato l’Alfano?”
“Non mi ricordo, forse di sfuggita una o due volte, ma l’ho solo salutato senza parlare con lui”.
“Allora cinque giorni fa in piazza Politeama, quello che parlava con Alfano non era lei, quello che ha poi preso il caffè e la brioche insieme con lui, non era lei… E già forse era uno che gli assomigliava tanto, da sembrare lei!” Continuando a girargli intorno, prosegue:
“Abbate, non ti conviene mentire, così aggravi solo la tua posizione, da semplice sospetto, rischi di diventare indagato. È vero che sui Carabinieri si raccontano un sacco di barzellette, ma la realtà è tutt’altra, caro signor Abbate. Tu e gli altri tuoi amici siete stati pedinati per diversi giorni e molti, fra cui lei, si sono incontrati con Giuseppe, anzi lei ben quattro volte. Se vuole le dico anche il giorno l’ora ed il luogo… ”
Abbate accusa il colpo e comincia a muovere nervosamente le mani.
“Io voglio solo sapere se Alfano ha parlato con lei di qualcosa di strano che avrebbe sentito dal Signor Scarpetta, il giorno precedente la sua morte, durante un colloquio con un suo amico nel locale laboratorio, circa un tesoro, una chiave di una cassa, del principe di S.Severo, ecc., tutto qui, oltre, ovviamente, conoscere dove si trovava il giorno quindici, tra le 7,30 e le 9. Risponda a queste due semplici domande e poi la mando via.”
“Sì, tenente, ho incontrato Giuseppe più volte, avevo paura di dirlo per timore di essere coinvolto… abbiamo parlato, ma di quello che dice lei, non mi ha detto proprio niente. Per quanto riguarda dov’ero a quell’ora… stavo in casa ancora a dormire. È difficile che mi alzi prima delle nove la mattina… spesso la sera faccio tardi… sa com’è… ci sono mia madre e la mamma di Giuseppe che possono testimoniare”.
“Sì, so com’è”. Risponde con un sogghigno il tenente. Verificheremo anche il suo alibi. Ora potete andare.”
I due si alzano, sono già alla porta, quando il Tenente con una mossa ad effetto dice ad Abbate:
“Un momento, per piacere un’ultima domanda, me ne stavo pure dimenticando. Signor Abbate ho visto che sul collo, a sinistra, ha un segno evidente di un graffio, mi può dire come se l’è procurato?”
Michele ha un attimo di smarrimento, ben percepito dal tenente, ma si riprende subito e con prontezza gli risponde:
“Sig. tenente le ho detto poco fa che spesso faccio tardi la sera… questo me l’ha fatto una ragazza più focosa delle altre!” conclude sorridendo.
“Focosa eh, e bravo! Verificheremo anche questo… come si chiama?”
Michele senza mostrare incertezza, come fosse preparato a questa domanda, dice:
“…si chiama Claudia Valente…”
“Arrivederci e si tenga a disposizione”.
“Va bene sig. tenente… a disposizione”.
Appena usciti:
“Maresciallo ha registrato tutto?”
“Sì signor tenente, tutto!”
“Bene. Voglio che questo ragazzo sia sorvegliato finché non parleremo con il giudice… da questo momento. Non vorrei che prendesse il volo!”
“Agli ordini sig. tenente, provvedo io ad impartire le disposizioni per la sorveglianza“.
“Va bene, marescià, puoi andare”.
Il giorno dopo il tenente Tavaro, accompagnato sempre dal fido maresciallo De Simone, si reca dal magistrato incaricato dell’inchiesta, il sostituto procuratore Andreani, giovane, ma non di primo pelo, che è ben considerato nella Procura di Napoli.
I due, all’ora convenuta, sono accolti dal giudice con cordialità nella sua stanza in cui faldoni, documenti ed incartamenti vari, in “ordine” sparso per tutta la stanza, testimoniano il notevole impegno del dott. Andreani.
“Signor tenente, maresciallo, buongiorno! Che novità mi portate?” Chiede il giudice andando subito al sodo.
Il tenente aggiorna il giudice in maniera esauriente e concisa, sull’andamento delle indagini ed in particolare si sofferma sui contatti tra il giovane Abbate e l’Alfano, il commesso del negozio, che aveva ascoltato il colloquio fra la vittima ed il suo amico Platone, da cui egli aveva tratto la convinzione, condivisa dal magistrato in prima battuta, che la storia della chiave e del tesoro che custodiva avevano solleticato il rampollo degli Abbate a tentare un colpo per mettersi in bella mostra e far vedere che anche lui non era da meno degli altri.
“Vede sig. Giudice, quando abbiamo parlato con Abbate Michele, accompagnato dall’avvocato Cuomo… ”
“Buono quello, l’avvocato Cuomo, ho già avuto a che fare con quel “principe del… foro!” Interrompe il sostituto Procuratore. “Prego continui Tenente…”
“Ecco, dicevo che quando abbiamo interrogato l’Abbate, questi ha negato di aver visto l’Alfano la sera prima del delitto, e nei giorni successivi. Quando gli abbiamo detto che è stato seguito e registrato in almeno quattro incontri successivi al delitto, ha dovuto ammetterlo, non senza difficoltà. Ha accampato le scuse più varie, ma senza convincerci, come sull’alibi costituito dalla mamma e dalla donna delle pulizie che è… la madre dell’Alfano…
“Gli unici a fornire l’alibi al ragazzo sono la madre… e la mamma del commesso… in effetti, la cosa suscita fondati dubbi: l’avvocato Cuomo, la mamma e l’altra mamma… ”
“C’è anche un’altra circostanza molto importante, signor giudice.”.
“Ah sì e quale?” Replica il magistrato vedendo già l’epilogo delle indagini.
“Il giovane Abbate, già, quando l’abbiamo fotografato negli incontri con l’Alfano, mostrava dei segni sul collo, anche se poco evidenti perché parzialmente coperti dai capelli lunghi. Questi segni erano ancora visibili, quando l’abbiamo convocato e quando gli ho chiesto come se l’era procurati – visti da vicino sono risultati, senza dubbio, prodotti da graffi di almeno tre dita – ci ha detto che era stata una ragazza un po’ … focosa. Gli ho chiesto chi fosse, anche se già sapevo che mi avrebbe detto un nome di qualcuna che, legata alla famiglia, non avrebbe avuto difficoltà a confermare. A me bastava che avesse esplicitamente affermato che si trattava di un graffio e non di qualcosa d’altro. Anche l’avvocato è rimasto contrariato perché non ne sapeva nulla. Il colloquio, poi, è tutto registrato…”
“Bene tenente, allora adesso questo bravo ragazzo, lo convoco io ufficialmente, lo mettiamo di fronte alle sue responsabilità e se continua ancora a negare, lo sottoponiamo all’esame del DNA e lo confrontiamo con quello del sangue e della pelle trovati sotto le unghie del signor Scarpetta, a quel punto, se esso coincide, non ho più dubbi sull’emissione del mandato di cattura”. Dice soddisfatto il giudice e aggiunge: “Bravissimi, i miei complimenti sulla vostra conduzione delle indagini e sul vostro fiuto investigativo. Do subito disposizione di convocare il sospetto e la farò avvisare per assistere, con la registrazione… ”
Il magistrato congeda i militi, i quali appena usciti dalla stanza si compiacciono degli sviluppi e tornano a S.Vitale.
Il giorno successivo, alle diciassette, Michele Abbate è convocato ufficialmente in Procura dal sostituto Andreani.
La tempestività dei militi e la celerità della convocazione, con ogni probabilità, hanno anticipato il tentativo di fuga dell’Abbate, che era molto probabile secondo le notizie che hanno riferito al tenente i militi che lo stavano sorvegliando. Essi, infatti, hanno notato degli strani incontri ed un certo nervosismo negli uomini della famiglia come se dovessero preparare qualcosa d’importante, a ciò si deve aggiungere che una ragazza, sempre vicina alla famiglia, era entrata in un’agenzia di viaggio, con molta probabilità per organizzare la fuga in aereo.
Alle cinque in punto, tutti i personaggi dell’indagine sono alla presenza del Sostituto procuratore Andreani.
Prima d’iniziare l’interrogatorio, il tenente chiede al giudice di parlargli… in separata sede, solo per pochi secondi.
Vanno nella stanza adiacente.
“Che c’è tenente di così importante?”
“Le volevo dare un’arma in più per fare pressione sull’Abbate, anche se non può usarla esplicitamente!”
“E… sarebbe?”.
“Sig. Giudice, noi il confronto del DNA l’abbiamo già fatto ed il risultato conferma, al 100%, quello fatto sui reperti dell’autopsia, però ufficialmente non si può dire, ma lei sappia che se chiederà questo confronto, il ragazzo, che sa che il graffio non gliel’ha fatto l’amante focosa, potrebbe crollare e confessare!”
“Questo è vero tenente… però poi mi dice come si è procurata la “prova”, eh? Ora torniamo di là!”
Il magistrato ripercorre con il giovane Abbate tutti i passi dell’indagine, chiedendo conferma e altri chiarimenti, finché, dopo aver tenuto scientemente, sulla graticola il ragazzo per quasi un’ora, arriva a chiedergli del graffio che ha ancora evidente sul collo e che Michele gli mostra quasi con spavalderia, sicuro della spiegazione sul come se lo sia procurato.
“Ah, allora lei conferma che quel graffio che ancora si vede bene sul collo, glielo ha procurato una sua amica, durante un amplesso… come dire, molto impetuoso…con… – leggendo i verbali – tale Claudia, Claudia Valente, vero?”
“Verissimo sig. Giudice!” Risponde Michele dopo aver guardato sorridendo l’avvocato Cuomo che invece non sorrideva per niente e gli risponde con una smorfia.
“Signor Abbate, avvocato Cuomo… ” Fa con tono austero il giudice. “… V’informo su un particolare che ancora non conoscete, perché i risultati dell’autopsia mi sono pervenuti ieri pomeriggio…”
Il magistrato, con una scelta di tempo teatrale, fa una pausa piuttosto lunga per mettere sulle corde indagato ed avvocato.
“Ci dica questo particolare, signor giudice. Vediamo di cosa si tratta!” Interviene l’avv. Cuomo, che non riesce a dissimulare il nervosismo.
“Sotto le unghie della vittima ed in particolare quelle della mano destra, sono state trovate tracce di pelle e sangue che appartengono al suo assassino, dalle quali, pur se piccole, con le tecniche attuali, abbiamo estratto il DNA dell’aggressore e omicida!” Altra teatrale pausa, durante la quale il tenente ed il magistrato si accorgono che il ragazzo è sbiancato e l’avvocato ha già capito dove il giudice va a parare.
“Allo stato dell’indagine, esaminati tutti gli atti relativi agli altri interrogati e le risultanze che emergono dai suoi interrogatori, non ho dubbi a ritenerla coinvolta nell’omicidio e quindi posso chiedere la verifica del suo DNA che confermerà o no la sua colpevolezza.”. Altra pausa, in un silenzio assoluto.
“Ora, sig. Abbate, le chiedo ufficialmente se lei non abbia altro da aggiungere a quanto sin qui affermato o se ha da fare delle nuove dichiarazioni, che saranno tenute in debito conto, nel corso del processo cui lei sarà sottoposto. Una sua confessione, ora, ed il racconto preciso di come si sono svolti i fatti potrebbero farle ottenere qualche attenuante, anche perché… ” Il giudice si appoggia sullo schienale dell’alta poltrona, incrocia le mani e fissa Michele Abbate, che ora non sostiene più lo sguardo con la stessa sicumera iniziale.
“Anche perché, dicevo, il risultato autoptico non ha ancora chiarito per bene le cause della morte. Non sappiamo ancora se la morte è dovuta alle percosse ricevute o se esse, pur pesanti, abbiano provocato il collasso della vittima. Quindi, io posso, nel secondo caso, che sembrerebbe, allo stato delle cose il più probabile, configurare il reato di omicidio preterintenzionale, invece che quello di omicidio volontario, che unita alla confessione, all’eventuale patteggiamento, alla mancanza di precedenti, può ridurre consistentemente la pena!” Il giudice continua a fissare negli occhi Michele e:
“Le do qualche minuto per consultarsi con l’avvocato, che saprà consigliarla per il meglio… vero avv. Cuomo?”
Il giudice, il cancelliere ed il tenente raggiungono la stanza vicina e aspettano…
Dopo circa dieci minuti, rientrano nella stanza ed il giudice fa:
“Ha deciso Abbate?”
“Sì, signor giudice”. Risponde abbassando lo sguardo
“Allora, sentiamo?” Replica con tono autoritario il giudice, sapendo, ormai, di condurre il gioco.
“Sì, sono stato io, ma non volevo ammazzarlo, mi creda”. Dice Michele alzando la voce e tradendo finalmente, un po’ di emozione.
“Ho capito, ho capito e ti voglio credere, ma ora raccontaci com’è andata! Cancelliere, verbalizzi tutto!”
“La sera prima… ”
“La sera del quattordici, vero?” Interviene a precisare il magistrato “Sia preciso Abbate!”
“La sera del quattordici…” Prosegue Michele “ho incontrato Giuseppe, come molte altre volte davanti al bar che frequentiamo, tutti noi, il Bar Vecchia Napoli. Quando l’ho visto mi è parso strano, agitato e gli ho chiesto se qualcuno gli avesse fatto qualche dispetto come gli succede ogni tanto approfittando che è nu poche inzallanute. Poi, ci penso io ad addrizzare chi lo prende in giro perché Giuseppe è sotto la mia protezione… ”
“Va bene, ma vada avanti!”
“Giusé che t’è succiesso? A me mo poi dicere, tu ‘o ssaje! Allora mi raccontò tutto quello che aveva sentito da ‘o scarparo… ”
“Il signor Scarpetta, Abbate, è morto e per colpa sua, un po’ di rispetto”. Interviene il giudice.
“Scusate dottò, scusate, ma chello è ‘o scangianomme soje e tutte quante ‘o chiamavano accusì.
Giuseppe mi raccontò la conversazione fra Scarpetta ed il suo amico. Lui non ci aveva capito molto, ma una cosa aveva capito bene che si parlava di una chiave che apriva un tesoro. Un tesoro di un Principe”.
“Ma di che maronne ‘e principe parle, Giusé?”.
“D‘o principe santo che into a cappella… ’na cosa ricordo buono… ’a pietatelle, chesta parola ha tengo a mente buono!”
“Nun avevo capito bene di che steve parlanne, ma continuava a cuntà. Ad un certo punto ha parlato anche di muorte, de stregone, allora agge cummenzato a capì quacche cosa”.
“Né Giusé, ma stisse parlanne d’o principe di San Severo e d’a cappella soia?”
“Eh, brave Miché, de chillo stavano a parlà, de ‘na cascia into a cappella e che la chiave l’aviva il signor Luigi”.
“A questo punto mi è diventato tutto chiaro, della vicenda del principe ne so qualcosa pure io, come tutti i napoletani ed anche la storia del tesoro, visto il personaggio, diventava credibile, come la chiave tramandata di padre in figlio. Allora mi sono detto, domami mattina vado a trovare ‘o… il signor Scarpetta e gli chiedo della chiave. Gli avrei fatto capire che sarebbe meglio darla alla mia famiglia, che, se il tesoro c’era, era l’unica che lo poteva trovare. Oltre tutto la Cappella è “zona nostra”.
“Invece il sig. Luigi non ne ha voluto sapere ed hai cercato di convincerlo con le maniere forti, con una persona anziana è facile fare il prepotente eh?” Incalza il magistrato.
“Ho cercato di fargli capire che era meglio se mi dava la chiave con le buone maniere… ma lui niente. Ha cominciato a dire che non era vero niente, che lui non ce l’aveva ‘sta chiave, che Giuseppe s’era inventato tutto… <Chillo è nu mieze scieme e tu crere a chillo c’a ditto?> A questo punto non c’ho visto più ed ho cominciato a picchiarlo. < O scieme sii tu, io Giuseppe o canosce da quanno eravamo piccirille, sarà poco inteliggente, ma busciardo no! Tu vuò fa o mappino, e famme crerere ca nun è overo niente!>.
“Ho cominciato a spingerlo e a schiaffeggiarlo… < dammella sta chiave, fetentone, sinnò t’accire ‘e mazzate… dammella o riceme addò sta, ommo ‘e mmerda!>. Ma continuava a negare. Quando sembrava che si fosse convinto mi si è avventato alla gola per strozzarmi, mentre gli toglievo le mani dal collo, mi ha graffiato ed io gli ho dato un pugno. È caduto per terra e gli ho dato anche qualche calcio. Mentre è rimasto a terra e si lamentava, ho cercato dappertutto, ho buttato all’aria quel laboratorio, ma della cassetta con la chiave nemmeno l’ombra. Ho continuato ancora un po’, poi mi sono avvicinato a lui per chiederglielo un’altra volta e, mi sono accorto che era morto. Ho continuato a cercare, portando via quello di buono che trovavo, anche l’orologio gli ho preso oltre il portafoglio, più altri oggetti che ho messo in una busta. Quando ho sentito arrivare Giuseppe e che lo chiamava, sono corso via dalla porta del laboratorio e mi sono allontanato”. Si ferma pochi secondi per riprender fiato, poi, con un ultimo sussulto, dice ad alta voce:
“Questi sono i fatti come sono andati, sig. giudice, ma io non volevo ammazzare, volevo solo spaventarlo per farmi dare chella cazzo e chiave… ‘a chiave d’o tesoro. Le botte che gli ho dato non possono averlo ammazzato… non possono…”
“Va bene, basta così, Abbate. Ora il cancelliere prepara la tua deposizione, la firmerai e sarai accompagnato a Poggioreale! Tutto questo per una chiave che forse nemmeno esiste, come pure il “tesoro”. “
“Signor tenente, andiamo, usciamo da qui, che l’aria è pesante, andiamo a prendere un caffè!”
L’indomani, il maresciallo De Simone telefona a Gennaro Platone:
“Né Gennà, avimme trovato chi ha accise Luigi, grazie anche a te. Vien a cà a San Vitale, ca ‘nzieme o tenente ce jamme a piglià nu café”.
“Va bbuono Alfò! Tra nu pucherillo sto addo te”.
Dopo pochi minuti Gennaro arriva al comando dei carabinieri e va dal suo amico maresciallo.
“Uè, Gennà, già sì arrivato? Sì veloce pure cu e cosce oltre ca c’u pensiero!”
“Né Alfò, sfotte pure, pe’ tramente si nu ce stave io, vuleve verè ca facevate, senza o “penziero” mio?”
“Va bbuono Gennà, agge capito, io sto sulo pazzianne! Aspiette ca, vade a chiammà o tenente.”
Dopo poco, ritorna in compagnia dell’ufficiale e dopo essersi salutati, scendono e vanno al bar vicino alla caserma.
Dopo aver sorbito il caffè il tenente, rivolto a Gennaro:
“Signor Platone, la ringrazio per la sua preziosa collaborazione e per il suo intuito che ci ha permesso di smascherare l’assassino del sig. Scarpetta. Sarei tentato di chiederle di collaborare con noi su qualche caso, se lei ne avesse piacere.”
“E visto Alfò, mò ave capito pecché lui è ufficiale e tu maresciallo? E sentuto bbuono c’ha ritto < grazie al mio intuito… > e tu ca me sfotte…!” Poi, rivolto all’ufficiale:
“Scusi sig. tenente, ma so tante anne ca ce canuscemmo e pazziamme sempre: io pecché so filosofe e lui pecché è carabbiniere!” A questa battuta segue una risata di tutti, tenente compreso.
“Un’ultima cosa sig. Tenente.”
“Prego signor Platone, dica”
“Voi avete arrestato l’esecutore dell’omicidio ma il mandante non l’avete preso!”
“Il mandante? E quale mandante… non capisco.” Risponde interdetto il tenente
“Il mandante è il Principe di San Severo. Chillo, addò sta mò, ha armato la mano di Abbate e ha fatte accirere Luigi, pe’ vennetta!”
“Il principe, vendetta, ma che dite sig. Platone, non mi fate ricredere, ho appena parlato bene di voi!”
“È accussì signor tenente. O Principe era pure nu stregone, ha viste che pe’ tante anne ‘a famiglia Scarpetta nun è stata capace di seguire le sue disposizioni e che Luigi era l’ultimo degli Scarpetta, allora ha deciso c’aveva a murì, così il suo segreto restava tale, per sempre!”
“Ma lei ci crede veramente a sta storia?”
“Nun se poi mai sapé, signor tenente. A vostra disposizione. Ce verimme.”
Gennaro Platone si accomiata con questa sibillina affermazione e i due graduati lo seguono con lo sguardo tra l’incredulo e lo stupito.
Qualcuno, a questo punto, si chiederà: ma la chiave che ha preso in consegna Platone che fine ha fatto?
Per soddisfare la vostra curiosità, vi narro com’è andata a finire.
Gennaro fa trascorrere quasi un anno prima di accingersi a dare seguito alla volontà di Luigi Scarpetta.
Nel frattempo aveva pensato molte volte a chi poteva parlarne, a chi poteva essere la persona degna, che il principe aveva indicato.
Dopo questo tempo, i clamori del fatto si erano, ormai, sopiti, cosicché Gennaro, si reca alla sovrintendenza delle belle arti, dove c’è il professor Eduardo Capurro, eminente studioso, del ‘700 napoletano in particolare, sia per quanto riguarda l’arte, sia per la cultura di quel secolo, che vide la nascita di molte personalità eccellenti in tutti i campi del sapere, grazie alla lungimiranza ed alla sensibilità artistica dei re di Napoli.
Gennaro aveva preso appuntamento qualche giorno prima, spiegando al professore che possedeva un oggetto che poteva rivelarsi prezioso, qualora il professore avesse saputo risalire alla famosa cassa.
Il professore più per cortesia che per vero interesse scientifico gli ha concesso l’appuntamento.
Gennaro entra nell’austero palazzo, dove un usciere lo indirizza al primo piano. Percorso un grande corridoio, arriva alla stanza del professor Capurro.
Bussa.
“Avanti”. Fa una voce dal tono severo.
Gennaro entra, si avvicina alla grande scrivania su cui sono ordinate molte carte e libri e si presenta:
“Sono Gennaro Platone, professore… avevamo un appuntamento.”
“Certo, certo. L’aspettavo sa? In un primo momento ero molto scettico su quanto lei mi ha accennato al telefono, poi, ci ho ripensato e ho fatto alcune ricerche, perché mi è affiorato un ricordo lontano che ha a che fare con la sua storia. Ma si segga per piacere. Ora le spiego tutto. Vedo che lei ha portato la chiave”.
“Sì, professore come promessole le ho portato lo scrigno con la chiave”.
“Bene, mi faccia vedere”.
Gennaro porge lo scrigno al professore che, con fare professionale lo prende con delicatezza e lo apre con leggerezza.
“Lo scrigno e la chiave sembrano effettivamente dell’epoca e quindi autentici, ma per quanto riguarda la cassa che doveva aprire questa chiave, ho brutte notizie!”
“Brutte notizie? Perché si trattava di una fantasia, non è mai esistita?”
“No! Anzi c’era e come! Solo che ricordandomi qualcosa in proposito, ho ritrovato dei documenti della fine del 1800, del 1887 per la precisione, in cui è descritto il ritrovamento di una cassa, probabilmente quella in questione, sotto il pavimento della cappella del principe di San Severo, prossima alla statua del Cristo Velato”.
“Ah, allora esisteva davvero questa cassa e come mai fu trovata così, senza indicazioni?”
“Fu un caso, solo un caso signor Platone… certo che lei ha un nome importante, non è impegnativo portare un nome così famoso?”
“Professore, ormai mi ci sono abituato e… le dirò di più, portare cotanto nome mi ha stimolato a studiare la filosofia, anche se non sono molto erudito, ma con il passar del tempo mi ci sono appassionato”.
“Allora siamo quasi colleghi!” Risponde con una punta d’ironia il professore.
“Professore, per carità, non esageriamo. Allora mi diceva della cassa…”
“Ah, sì la cassa! Fu solo un caso per cui essa fu trovata. Furono fatti degli urgenti lavori di restauro alla pavimentazione della cappella e quando si stava per richiudere il pavimento, un operaio sentì che un po’ più in profondità c’era qualcosa che non aveva a che fare con il pavimento ma che sembrava una cassa di legno, di cui si vedeva appena la parte superiore. Fu deciso di recuperarla con tutta l’attenzione possibile. Appena isolata dal materiale circostante, a colpi di spatola e pennello, ci si accorse che era una grossa scatola di legno piuttosto massiccio, ma che presentava evidenti segni di deterioramento a causa dell’umidità subita per chissà quanti anni. Probabilmente più di cento secondo il suo racconto.”
“E poi, fu tirata fuori la cassa e dentro che c’era?”
“Qui viene la parte peggiore. La cassa, come ho detto, era ridotta male e si riuscì appena ad estrarla intera che subito dopo averla posata su un tavolo cominciò a disgregarsi. Bastò il tempo necessario per liberarla dal pavimento e tirarla fuori che il legno già marcio, cominciando ad asciugarsi, iniziò a disfarsi. Il coperchio, racconta la cronaca del ritrovamento, rimase in mano a colui che l’aveva sollevato e dentro c’era solo una poltiglia, maleodorante, di quelli che, una volta, dovevano essere dei documenti cartacei. Questa poltiglia era talmente informe che non fu possibile comprendere nulla del suo contenuto, non una parola od un segno erano leggibili. Probabilmente anche con le tecniche di oggi non si sarebbe riuscito a recuperare niente.”
“Che peccato!” dice sconsolato Gennaro, tutto l’ingegno del Principe… in poltiglia”.
“Tanto bravo in tante scienze, quanto improvvido nel nascondere la cassa in un ambiente soggetto ad umidità o, forse, le infiltrazioni sono state successive di qualche decennio. La cassa, o meglio quel che ne rimaneva ed il suo contenuto fu buttata, il pavimento sistemato, tutto qui!”
“Se penso che la famiglia dell’amico mio si sia tramandata per niente, questo scrigno per tanti anni, con il patto di trovare una persona degna di aprire la cassa, ci sarebbe da ridere…”
“Già!” Commenta sconsolato anche il professore.
“Spero di esserle stato d’aiuto, anche se lei confidava più nel ritrovamento che nella conferma della sua esistenza, ma è andata così… ”
“Grazie professore, è stato molto gentile e cortese per avermi ricevuto e per essersi documentato! La saluto e le auguro buon lavoro perché mi sono reso conto che il patrimonio artistico di Napoli è in ottime mani!”
“Grazie sig. Platone e… continui a studiare la filosofia, mi raccomando. Arrivederci!”
“Di nuovo professore”.
Gennaro esce dal Palazzo, con lo scrigno in mano.
“O tenente me sfotteva quanne riceve ca cu o principe nun se scherza. Chille s’è incazzato overamente e appena e Scarpetta so fernute ha fatto murì Luigi, l’ultimo!”
Così pensando Gennaro s’incammina ed appena passa davanti ad un cassonetto, non ci pensa due volte, prende lo scrigno e lo butta dentro.
“Vafanculo a te e a o principe toje. S’avisse accorgere che mò a tengh’io sta chiave e m’avisse a fa murì pure a me! Tiè!” Facendo un plateale gesto di scongiuro con entrambe le mani verso il cassonetto.
S’allontana, poi, lestamente per raggiungere il suo amico Ciro Aristotele nella sua pizzeria.
‘A MUNNEZZA
Napoli.
Sono le sette del mattino di un lunedì del mese di marzo.
Gennaro Platone si accinge ad affrontare un altro giorno nella sua amatissima città, nonostante le tante problematiche che l’affliggono, da molti anni ormai, anzi, da tempo immemore.
La condizione della città l’angoscia sia perché napoletano, sia perché “filosofo” e come tale, portato a vivere con più partecipazione i problemi ed i disagi cronici di Napoli.
La recente esplosione dell’emergenza rifiuti in città e nel circondario, è uno di questi!
Dopo essersi vestito, Gennaro esce da casa con l’intenzione di raggiungere l’amico Ciro che oggi è libero dagli impegni perché è il giorno di chiusura della pizzeria.
“Jamme da Ciro, accussì m’arrecrio nu pucurillo e ce facimme ‘na bella cammenata vicino ‘o mare, fino a piazza Politeama”. Così dice ad alta voce, mentre infila la porta di casa per scendere in due piani del palazzo.
In pochi minuti raggiunge il vicolo dov’è la pizzeria di Ciro, sicuro di trovarlo dentro, come il solito, a sistemare il locale.
“Uè Ciro stai dinto? Sii tu?”
“No! Nun so’ Ciro… oggi so’ Renato!”
“Renato chi?” “Renato Cartesio, ciuccio! Oggi me siente Renato Cartesio, m’agge scucciate d’esse Aristotele!”
“Agge capito Cì, te sì scetato co ‘o culo scupierto, né?”
Ciro avvicinandosi all’entrata del locale:
“Puote esse signor Platone, ‘na vota succede anche ad Aristotele da esse incazzuso!”
“Certo che sì, mio caro ed esimio collega, anche noi filosofi siamo esseri umani e non solo pensatori!”
“Né Gennà, trase dinto e nun dicere ‘ste strunzate, ca oggi nun è ccose!”
Gennaro entra, ha compreso che Ciro non è del suo solito umore ed evita battute ed atteggiamenti provocatori.
“Né Ciro, ma cumm’è ca oggi sì accussì curiuso?”
“Cumm’è, cumm’è Gennà.” Replica Ciro con un tono astioso.
“Nun ce la facce cchiù: tengo doje cuofane de munnezza e nun sacce cchiù addò l’agge vuttà!”
È impossibile non cogliere in questo improvviso sfogo, tutto il disagio e l’amarezza per il protrarsi, da molti anni ed a fasi alterne, della questione dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campana ed a Napoli e dintorni in particolare.
“Nun me siente cchiù de vuttarla in mieze a via! Nun è possibile, nun se puote ghì annanze accussì… a stamme a scarrupà ‘sta città nuoste!”
Lo sfogo accorato di Ciro è ascoltato in silenzio da Gennaro che si limita solo ad annuire.
“Cu tutto chello ca già c’avimme a Napule, ce scarziava sulo st’ate guaio! Avimme arruinato l’immagine de Napule, della Regione, o turismo e de’ soje prodotti in tutt’o munno!” Continua con ancora più foga.
“Me pare de sentere ‘e risate e i cummiente d’o munno sano!”
< Napule è coverta da ’a munneza, nun se sciata p’o gran fieto, ‘e discariche so’ chine e veleni, nemmanco de l’agricoltura ce se puote fidà>
“Chesto siento dinto ‘e recchie Gennà! Che figura ‘e mmerda…” Queste ultime parole gli si strozzano in gola, per la commozione e per la rabbia.
“Ave raggione Ciro e cumme si ave raggione!” Dice Gennaro, rompendo il riserbo mantenuto sino a quel momento.
“È una cosa di una gravità assoluta, che sta facendo più danni di una calamità naturale, mentre, qui, di naturale c’è solo ‘a munnezza, ma quello che ha causato tutto questo sfacelo in tanti anni, non è naturale e non è nemmeno concepibile. È un disastro perpetrato da decenni senza che nessun amministratore pubblico abbia saputo o voluto risolvere!”
“Mò e parlato ‘e coreGennà. Si putisse dinto a sti cuofane ce mettisse propre e nuoste amministratori”. Ciro sottolinea in modo enfatico la parola “amministratori”, poi continua:
“c’i mettisse aroppo aville fatte a piezze cu ‘e mane mie, e e sacche ‘e vuttasse a mare, si nun avisse appaura ca pure e pisce e sputassero a fore ‘ncoppa a terra, tanto facissero schifo pure a isse!”
“Ma Ciro che dici, questo sarebbe un crimine molto grave, non è degno di un filosofo fare queste affermazioni!”
“Overo Gennà mmece è ‘na cosa digna chella c’hanno fatto ‘sti fetiente ‘e mmerda?” “Allora ricimme accussì: vado a buttare a mare i rifiuti umani colpevoli di questo degrado; non inquino e non sporco, tanto questi sono rifiuti biodegradabili e qualche pesce se li mangerà pure!”
Gennaro trattenendo a stento una risata e sforzandosi di rimanere serio, gli risponde:
“Sempre omicidio è e, poi, in Italia non c’è la pena di morte!”
“Ah, è overo, nun ce sta ‘a pena de muorte ma…sulo pe’ isse, i politicanti. Noje ca simme ‘a maggioranza, ca simme ‘a pupulazione ca suppurta e pave, avimme a murì p’o fieto, p’a diossina, p’o percolato e pe’ tutte l’ate veleni che ce stanno into ‘a munnezza, pe’ noje ‘a pena e muorte esiste e puro si nun avimme fatte niente! Ma famme ‘o piacere Gennà!” Ciro si ferma qualche secondo per riprendere fiato; è veramente agitato come non mai.
“Cumme disse Sansone, ca si muriva isse, avevano ‘a murì pure tutti i Filistei, io dico: allora noje avimme ‘a murì, va bbuone, ma cu noje pure tutte quanti i politici, i camorristi e l’ate figli ‘e zoccola!”
Concluso lo sfogo Ciro, s’accascia come un sacco vuoto su di una sedia. Nella pizzeria cala un irreale silenzio, anche Gennaro si siede di fronte a Ciro e per un po’ si scambiano solo degli sguardi più eloquenti di tante parole.
Poi, Gennaro rompe il silenzio:
Se i nostri “antenati” sapessero che, invece di ragionare su argomenti seri ed importanti, parliamo di “munnezza” si rivolterebbero dentro le tombe!”
“Pecché e tiempe lloro a munnezza nun ce steve?”
“Certo che c’era, caro Ciro, ma era poca e tutta biodegradabile: erano solo i resti dei cibi, qualche pietra o mattone che proveniva dalle costruzioni degli edifici o da quelli abbattuti, molto speso riutilizzati; i colori erano tutti prodotti con sostanze naturali tipo terre varie o piante. Non c’erano la plastica, i metalli di tutti i tipi, l’amianto, i detersivi e tante sostanze chimiche velenose come oggi. Era tutta un ‘altra cosa!” Conclude sconsolato Gennaro.
“Eh sì!” Risponde Ciro, tirando un gran respiro.
Gennaro nota con piacere che l’amico sta riprendendo il suo abituale umore.
<Gli ha fatto bene sfogarsi> Pensa.
“Gennà, a proposito degli antenati, m’è venuta in cape ‘n’addumanna”.
“Dì pure Ciro”. Fa Gennaro, cogliendo un pizzico di malizia nei suoi occhi.
“Se Platone ed Aristotele, avissero vissuto ‘nzieme, dinto a stessa casa, quale de doje jiva a vottà a munnezza?”
“Uè Ciro che domanda cretina fai, va bene che sei ancora agitato, ma, questa, non la capisco proprio!”
“Gennà vulive ricere: a sicondo d’o pensiero filosofico de’ nuoste antenati, chi aveva ‘a vuttà a munnezza?”
“Maronna Cì!” Risponde Gennaro ritornando al dialetto.
“Ma che strunzata stai ricenno? Mò avisse a stabbelì chi de’ doje, sicondo ‘o pensiero soje era più accuoncio a vottà a munnezza?”
“Bravo vedo c’ave capito!” Fa Ciro con soddisfazione.
Gennaro un po’ per non urtarlo, un po’ perché solleticato, come sempre, da queste dispute “filosofiche”, anche su argomenti così poco consoni, ci pensa su un po’, finché non inizia ad enunciare il suo teorema, recuperando, come si conviene la lingua italiana.
“Vedi caro Ciro, come ti ho detto quando discutemmo sull’immortalità dell’anima, Platone aveva una concezione della vita e dell’essere più vicina al divino al soprannaturale. Aristotele, invece, ne aveva una più terrena, più materialista, si direbbe oggi.”
“Ah e allora che ce trase stu discuorso cu ‘a munnezza?” Gennaro lo fulmina con lo sguardo.
“Va bbuono continua, ja!” Fa Ciro scuotendo la testa.
“Nel famoso affresco di Raffaello, in Vaticano, denominato “La scuola di Atene”, il pittore ha raffigurato al centro della composizione, in mezzo a tanti altri filosofi, Platone con una lunga barba bianca e radi capelli, lunghi e bianchi anch’essi, alla sua sinistra c’è Aristotele con barba e capelli folti d’un colore castano, perché più giovane. Platone ha il braccio destro sollevato dal gomito in su con l’indice della mano rivolto verso il cielo, l’Iperuranio. Aristotele con il braccio destro teso, perpendicolare al corpo ed il palmo della mano aperto con le dita leggermente allargate. Questi due atteggiamenti simbolizzano e sintetizzano le rispettive dottrine filosofiche, pur essendo uno il maestro dell’altro”.
“E allora?” interviene spazientito Ciro.
“E allora, per farla breve, Platone si occupava più del trascendente, dell’anima, del cielo; Aristotele più della terra, delle scienze, delle cose concrete. Ne deduco, quindi, che il più pertinente ad occuparsi anche di una questione così infima come i rifiuti sia Aristotele!” Conclude soddisfatto Gennaro.
“’N’ata vota!” O sapevo che pure chesto tuccava ad Aristotele, primma senz’anema, ora pure ‘a munnezza! Sempe a me ‘e peggio cose!”
Con l’immancabile guizzo d’ingegno, Ciro, che lo aveva scientemente provocato intuendo come sarebbe finita, continua:
“Va buono, agge capite”. Segue una pausa intenzionale per incuriosire Gennaro, poi:”Né Gennà, ma a te ‘a pizza piace sempe?”
“Certo Cì, c’addumanna me fai?”
“A vulisse magnà ancora, ‘a margherita, ‘a marinara e l’ate?”
“Certo c’a sì! Pecché?”
“Buone! Allora te riche ca si tu, ora, nun puorte a fora sti doje sacche e munnezza, ca ‘a pizza nun a magne cchiù, pure si pave!”Gennaro resta interdetto e stupito, ma lo sguardo di Ciro non ammette repliche e pensa che sia meglio non contraddirlo, perché è capace di fare quello che ha detto.
Senza parlare prende i due sacchi neri e si avvia verso la porta.
“E brave Aristotele, ave capito, mò fatte ‘na “peripatetica” cu e cuofane in mano, accussì camminando puote raggiunà comme se faciva a scola toja!”
Gennaro si ferma, si volta verso l’amico. Vorrebbe rispondere, ma il vederlo con l’aria sorniona e soddisfatta lo fa sorridere, compiaciuto di essere stato messo in mezzo subdolamente, ma con arguzia.
Esce ridendo dalla pizzeria accompagnato dalle risate di Ciro.
LA GLOBALIZZAZIONE
Napoli ore 21 di un giorno di novembre.
Gennaro Platone sta serenamente appoggiato al vecchio bancone di marmo, dietro il quale il suo amico Ciro Aristotele prepara le pizze da infornare per i numerosi clienti della sua pizzeria.
È un rito antico, cui ha assistito numerose volte nella sua vita, già da ragazzo, quando venne ad abitare nel vicolo e la sua famiglia divenne vicina e poi amica di quella di Ciro. Allora e per molti anni a seguire, c’era il papà Giuseppe che le faceva, poi, dopo aver finito le scuole medie, gli si è affiancato il figlio Ciro che ha gradualmente assimilato tutta l’esperienza di cinque generazioni di ”pizzaioli” fino a sostituirlo validamente alla sua morte, continuando sia il mestiere, sia a perpetuare l’indiscussa capacità nel preparare la pizza.
La conferma di tutto ciò, sta nel fatto che, questo locale storico, continua ad essere frequentato da numerosi cittadini, napoletani e non, attirati dalla qualità delle pizze sfornate da Ciro.
“Né, Gennà, te vede penzaruso!” Dice Ciro, mentre con movimenti lesti e sapienti allarga due pani di pasta cresciuta.
“È overo, Cì! Penzave a quanno eravamo guagliune, a patete quanno faceve ‘e pizze e ‘a quant’anne ce canoscimme…” Un tono di malinconia traspare nelle parole di Gennaro.
“Doje margherite, ‘na marinara e una co’ ‘a saciccia!” Fa Giuseppe, uno dei camerieri.
“Va buone, Giusè!”
“Gennà stasera che tene? È ‘a serata d’a nustalgia?” Gli chiede Ciro senza interrompere il suo lavoro.
“No Cire, nun è propre chesto, pure se nu pucherille de nustalgia ‘a tengo!”
“E allora che te passe pe’ ‘a cape?” Insiste Ciro.
“Steve facenno ‘na considerazione sull‘arte toja e de’ toje antenati, pizzaiuole tutte quante.”
“Ah, e allora?” Insiste Ciro mentre spande la mozzarella sulle ruote di pasta, stese rigorosamente a mano, come vuole la tradizione.
“E allora… t’o riche dimane, tu mò tene troppe a che fa!”
“Ho avuto un’altra delle mie intuizioni “filosofiche” indottami dalla tua pizza.”
< Azz… ha parlate italiano, ha da essere ‘na cosa seria!> Pensa Ciro.
“Va buone Gennà, dimane è o juorno che so ‘nzerrato e putemme parlà cu carma, vene cà alle diece, ce jamme a pijà o café e aroppe raggiunamme!”
“Sì facimme accussì, c’è troppo ammuine ‘sta sera ca rinto.”
“Bona nuttata, Gennà!”
“Pure a te Ciro!”
L’indomani mattina, puntuale come sempre, Gennaro si affaccia nella pizzeria, dove Ciro, già da oltre un’ora, sta sistemando il locale.
“Ciro, so’ arrivà, aggia aspettà o sii pronto?”
“Oì stò appruntato, sto venendo!”
“Buone t’aspiette ca annanze.”
Pochi minuti e Ciro esce, chiude il locale e s’avvicina a Gennaro.
“Jamme a piglià nu café, jamme.”
“Jamme Cì, nu café ce stà sempe buono, ajuta o cervielle a raggiunà e po’ anch’isso ce trase rinto o raggiunamento che m’è venuto ‘n cape!”
<O café? E che ce trase o café cu o raggiunamneto…chest’omme ogne vote se n’ammenta ‘na cosa nuova.> Si dice Ciro, anche se, ormai, dopo tanti anni non si meraviglia più di tanto.
“E jamme a raggiunà in coppe o café… verimme ca succede!” Gli risponde sorridendo.
Percorrono in breve tempo il solito dedalo di strade per arrivare al bar di don Gaetano, non molto lontano da via Caracciolo, anche lui amico di lunga data, persona amabile e dalla lingua pronta e sferzante, come ogni buon napoletano.
“Trasimme Cì, verimme ogge c’ave a dì don Gaetano…” Dice con sussiego Gennaro.
“C’ave a dì Gennà, chille è ‘n’omme spirituse e simpatico e pure noje ce truvamme a pazzià cu isse!”
“È overo cì ma noje simme sempre e doje filosofe, nun t’o scurdà!”
“Va buone Gennà, va buone, mò nun c’intossicamme stu café… trase…”
Appena entrati, Gaetano li apostrofa come il solito:
“Buongiorno miei eminenti filosofi, era una po’ di tempo che non avevo il piacere di una vostra visita… eh già, mò avite fatte e renare (vedi il terno a lotto) e nun potete scennere in basso cu nu barista cumme a me!”
“E viste ca chiste ce sfruguglia sempe?” Dice Gennaro a Ciro.
“Lasse sta, tuorte nun l’ave, pijammoce stu canchere e café!”
“Mio caro don Gaetano.” Esordisce Gennaro, con malcelata prosopopea. “Come vedi, checché tu ne dica, noi siamo sempre gli stessi, anche co’ e denare, come dice lei; noi siamo filosofi e non facciamo distinzioni di censo, al più potremmo fare distinzioni di cervello, nel qual caso sarebbe proprio opportuno evitarla solo per questo motivo, ma noi siamo magnanimi e generosi, quindi continuiamo a frequentarla per farle godere ancora e di più della luce e della sapienza delle nostre menti!”
Ciro è rimasto inebetito da questo discorso che, conoscendo a fondo Gennaro, altro non è che una delle sue solite provocazioni nei confronti di chi mette in dubbio le loro qualità “filosofiche” ed aspetta, trattenendo il riso, l’immancabile replica di Gaetano.
Pochi secondi di silenzio separano l’affermazione di Gennaro dalla risposta, durante i quali anche gli altri avventori del bar si sono zittiti per gustarsi la scena.
“Avite raggione mio caro sig. Platone e m’avisse a perdunà se agge ammacato ‘e devuzione a ‘nu perzunaggio alletterato e intelligente cumme a vuje. Agge a ricere, però, che pure ‘na perzona cumme a vuje senza uno cumme a me e cumme tutte l’atre che stanno cà, nun è nisciune, pecché in mieze a ‘na pupulazione de strunze, uno cumme a voje è isse o strunzo e non l’atre…”
Hanno tutti ascoltato in silenzio questa risposta e Gennaro, da buon napoletano ed anche filosofo, ne ha colta la profonda verità che in essa è evidente.
“Né Gaetà” Gli dice tornando al dialetto. “Nun sacce si te si’ accuorto o no ch’e ritte ‘na cosa profonda assaje e pure intelligente e, datosi che io so’ filosofo, me complimento cu te e me siente in duvere de pavà o café a tutte quante e pure ‘na decina e “sospesi”!”
Sorridendo compiaciuto Gennaro si rivolge a Ciro, facendosi sentire da tutti:
“Sta vota Gaetano m’ave fottute e pure buone e propre su u campe nuoste!”
“Brave Gaetà, mò puote pure praparà sti café!”
“Grazie signor Platone!” Risponde Gaetano calcando la voce su Platone.
“Gaetà mò nun allanzatte troppo, turna a o posto toje e fa ampressa cu o café!”
Dopo essersi salutati con il consueto calore, Ciro e Gennaro, escono e continuano la loro passeggiata, fino ai giardini del lungomare, dove si accomodano su una panchina.
La giornata ha i tipici connotati di novembre: cielo coperto, una ventilazione moderata causata dal libeccio, che produce una temperatura gradevole per il periodo autunnale.
L’aria del mare arriva loro chiaramente percepibile, con il suo inconfondibile profumo, come pure distintamente avvertibili sono gli immancabili rumori del traffico di Napoli.
“Né Gennà, siente cumme addora e mare l’aria, Chist’addore m’è sempe piaciuto!” Esclama soddisfatto Ciro.
“Beh, allora ca t’è venute in cape aier sera, e su cosa vulive raggiunà?” Fa Ciro, non senza un pizzico di sarcasmo.
“Già!” Risponde Gennaro. “Simme cà apposta.”
Segue qualche attimo di silenzio e di riflessione, Gennaro sta coordinando i suoi pensieri, mentre Ciro lo guarda, pensando < Chissà su cosa me vurrà arricrià oggi!>
“Caro Ciro…” < o vì loche, parla in italiano ‘a discussione filosofica sta accumenzanne!> “Ieri sera quando ti guardavo preparare le pizze, cosa che sai fare benissimo, a differenza di ragionare nonostante ti chiami Aristotele…”
“Uè Gennà, ogne tante hai a fa o strunze, io nun raggiune cumme a te, ma tu e pizze mie te e mangi e comme, io raggiuno cu e mmane e tu cu o scarso cervielle ca tene e mò può pure continua!” Gli fa Ciro ripetendo l’annoso teatrino che li vede protagonisti fin quasi dall’infanzia.
“Io vulive ricere sulo che almeno ‘na cosa bbuona tu a sape fa!”
“’N’ata vota ancora, a vulisse fernì?”
“Va bene, mio caro discepolo, terminiamo la nostra modesta contesa e torniamo all’argomento che m’impegna.” Fa sussiegoso Gennaro.
“Allora, dicevo che mentre facevi le pizze, oltre a ricordarmi degli anni passati e di quante volte l’ho visto fare, prima da tuo padre e poi da te, mi è scaturita un’intuizione che in questo periodo caratterizzato da una grande crisi economica, ci si attaglia a pennello.”
“Ch’aie ditte, taglia il pennello? Te siente buone?”
“Ciro, per piacere, non è possibile che appena io usi un termine colto tu non debba capire niente! Ho detto attaglia, cioè riguarda, si addice, è adatto al periodo che stiamo attraversando. Quindi, in parole povere – lo guarda negli occhi – un pensiero che ce sta buone cu ciò che succede in tutto ‘o munno! Ce simmo sino a cà?”
“Sì, mò agge capito.”
“Bene lasciami proseguire e cerca di non interrompermi più, grazie!”
“Sì…maestro!” Gli risponde ridendo. Un sorriso scappa anche a Gennaro che si sforza, inutilmente, di non mostrarlo.
“Questa grande e profonda crisi, la più grave dopo la Grande Depressione del 1929 negli Stati Uniti, secondo te, perché ha coinvolto più o meno tutto il mondo?”
“Pecché… pecché e denare nun tengono confini e con gli strumenti informatici attuali si muovono a livello planetario.” Risponde prontamente Ciro cercando di seguire il “maestro” anche nel parlare italiano.
“Bravo, lo vedi che a furia di seguire Platone il tuo maestro, caro discepolo, ogni tanto ragioni bene anche tu!”
“Grazie assaie maestro, però nun esagerate perché il “discepolo” come mi chiamate voi,’a pizza ve la farà solo odorare e non più mangiare…”
“Bene, bene proseguiamo…” Dice Gennaro facendo finta di nulla.
“Questo fenomeno che tu hai correttamente descritto, s’inserisce in quello più ampio che già da molto tempo è noto come ‘Globalizzazione’.”
Ciro lo segue curioso di vedere dove lo porterà questo strano discorso.
“La globalizzazione, come tu saprai…” Dice guardando Ciro negli occhi. “…è il fenomeno del progressivo ed ormai inarrestabile ampliamento di tutti gli eventi umani, economici, sociali culturali e così via, all’intero pianeta. Se da una parte è una grande opportunità per tutti, perché ogni nazione può beneficiare delle idee e degli strumenti conoscitivi che essa mette loro a disposizione, migliorandone la qualità della vita, non solo economica, dall’altra li mette in condizioni di subirne anche gli effetti negativi quando qualche cosa non vada per il verso giusto, innescando processi a catena, prima improbabili oltre che impensabili.”
“È tutto chiaro, finora?”
“Chiarissimo Gennà!” Trascorre qualche secondo.
“Ma nun capisco pecché parle e cheste ccose…”
“Mò c’arrive Cì, chiane, chiane!”
“Io avevo già elucubrato su quest’argomento…”
“C’avive fatto: incubrato…lubrato, ch’e ditte?”
“Maronna mia Cì, te chiamme Aristotele e nun canosce nemmeno cheste parole elementari pe’ nu filosofe!”
“Elucubrato, sta per pensato è un sinonimo!”
“Ah, n’avevo sentute buone… a sacce chesta parola.”
Gennaro senza infierire ulteriormente prosegue.
“Sentendo spesso parlare di globalizzazione avevo già ‘pensato’ che questo fenomeno, pur se in termini diversi di tempo e luogo, l’avevano creato i nostri progenitori, poiché il loro pensiero, la loro dottrina filosofica si è sviluppata e propagata in tutto il mondo allora conosciuto fino ai giorni nostri. I primi globalizzatori del pensiero etico, sociale, politico sono stati proprio Platone ed Aristotele.” Una pausa per riordinare le idee, poi prosegue.
“Platone: la dottrina delle idee, della superiorità della saggezza sulla sapienza, del trascendente sull’immanente. Aristotele invece, pur se discepolo di Platone, se ne discosta e dà più importanza al mondo dell’immanente, ai fenomeni naturali, dichiarando la superiorità del metodo deduttivo a quello dialettico di Platone, dando importanza alla logica più che all’etica. Solo con la logica deduttiva basata sul sillogismo, si può arrivare alla conoscenza ed alla verità!” “Aristotele fu il primo scienziato della storia, il suo metodo improntò la Scolastica e tutto il mondo del pensiero per molti secoli fino all’inizio dell’epoca moderna, anche se le due scuole, quella Platonica e quella Aristotelica continuarono a contrapporsi ed a confrontarsi. Tutti i filosofi che vennero dopo di loro hanno percorso le loro orme sino ad arrivare a delle elucubrazioni originali, ma l’aristotelismo ha influenzato il mondo arabo, medioevale, rinascimentale fino ai pensatori “moderni”.
“Azz, che bella disquisizione c’agge fatte, n’è vero Ciro?”
“Overo Gennà e so’ cuntento che Aristotele abbia formulato la dottrina che ha superato i secoli fino a noi!”
“Te sente arricriato che l’avo toje è o chiù impurtante, eh?”
“E già!” Esclama soddisfatto Ciro che in queste disquisizioni ha spesso la peggio.
“Ti dirò di più, caro Ciro, che sei importante pure tu! Ieri sera guardandoti lavorare ho avuto questa idea.”
“Ah sì e pecché?” Fa molto incuriosito Ciro.
“Perché i nostri antenati hanno globalizzato per primi il mondo del pensiero, della morale e della scienza, ma tu ed i tuoi antenati ‘veri’ avete globalizzato il mondo alimentare!”
“Cumme sarebbe, c’avimme fatto noje Aristotele napulitane, sì sicure de chello che stai ricenno: alimentare? Nun ‘ntenno.”
“Meno male che ho appena parlato bene di Aristotele… Volevo dire che tu e i tuoi avete globalizzato il mondo con la pizza!” Si ferma un attimo per vedere l’espressione sorpresa di Ciro.
“Ciro se c’è una cosa che tutti nel mondo conoscono ed apprezzano è la Pizza Napoletana! Più globale della pizza, in campo alimentare, non c’è altro, né gli spaghetti né il parmigiano, né il caffè, pur se sono prodotti molto diffusi!”
“Ne deduco, quindi, grazie al sillogismo del tuo ‘antenato’ che i primi globalizzatori dell’età moderna siamo stati noje napulitane!”
“Né Ciro, agge tuorto?” Chiede tronfio all’amico.
“No Gennà tu è ditte ‘na cosa vera e pure bella assaje! Nun c’è paese o munno addò nun se fa ‘a pizza!”
“O ssaie che te diche che m’hai rato ‘na buona penzata: m’ave a crià ‘no gusto novo, ‘na pizza sfiziosa che a vulisse chiamma ‘pizza globale!”
”Bravo è ‘na bella penzata, e a proposito jamme a mangià ‘na fella e pizza da o amico toje!”
“Sì Gennà che m’è venuta famme pure a me, jamme, ja!”
LA CULLA DELLA FILOSOFIA
Napoli è una piacevole giornata di maggio.
Ciro e Gennaro, come sovente sono abituati a fare nel giorno di chiusura della pizzeria, stanno passeggiando nelle strade centrali di Napoli. Come il solito sono circondati dall’immancabile confusione provocata dai rumori del traffico, in cui risaltano: i suoni molesti di numerosi clacson, azionati sempre a sproposito; il vocio della gente, abituata a chiamarsi ed a salutarsi sempre ad alta voce, anche da un marciapiede all’altro e dai finestrini delle auto; i rumori più disparati provenienti dalle attività umane e dalla musica degli stereo, che, inutile dirlo, sono ad alto volume.
Una condizione questa, che lascia sempre interdetti ed irritati chi giunge a Napoli la prima volta.
Chi ci vive, come Ciro e Gennaro, non solo non fanno caso a tutto ciò, ma si stupirebbe del contrario, come se mancasse loro qualcosa d’importante e vitale. Napoli è così e si deve accettare per quello che è. L’unicità di questa città che vanta bellezze naturali, storiche, artistiche ed una “umanità” che fa premio su tutti i suoi, veri e presunti, difetti, è la sua caratteristica peculiare.
I nostri protagonisti pur stigmatizzando, a volte, alcuni eccessi, hanno sempre manifestato un grande amore per la loro città, per le sue tradizioni e per la sua gente, di cui loro fanno parte, a pieno titolo.
“Uè Cì, è sempe ‘nu piacere passià rinto Napule! Me piace tutte quanto d’essa: l’ammuina, l’addore, oddio quacche vota è chiù fieto c’addore ma va buone accussì; ‘a gente ca rire sempe, alliera e senza penziere.”
“Né Gennà ‘e ritto ‘na cosa vera assaje!” Replica Ciro con evidente soddisfazione e prosegue:
“Si nuje nun fussime accussì, sarimme fernute ‘a tanto tiempo.”
“Overo Cire, overo. E propre cà vuleve arrivà!” Dice con soddisfazione Gennaro, contento di aver condotto l’amico dove lui desiderava.
“Ah sì e pecché?” Risponde incuriosito Ciro, immaginando che l’amico si sarebbe avventurato in un’altra delle loro discussioni filosofiche. Dopo tanti anni di frequentazione, conosce ogni sfumatura del carattere di Gennaro, come anche questi di Ciro.
“Perché caro collega in questi giorni stavo meditando proprio sulla nostra città, con particolare riferimento alla disciplina culturale che ci accomuna.” Fa, non senza un pizzico di prosopopea, Gennaro.
< O vì loche, ha accumenzate a parlà in italiano, ce simme, a cummertazione è partuta!> Dice a bassa voce Ciro.
“Né Gennà, si avimme a parlà de cose serie, jamme a assettarse ‘ncoppa a ‘na panchina là abbascio.” Fa Ciro indicando il vicino giardino.
“Bell’idea Cì, jamme accussì c’arrepusamme e putimmo raggiunà chiù buono.”
Dopo poco, eccoli seduti comodamente sulla panchina con la vista del mare di fronte, che li rende ancor più disponibili al “ragionamento”.
“Stavo dicendo, caro Ciro, che è un po’ di tempo che penso alla nostra città, al nostro popolo ed alla sua storia antica e recente.”
“Ah, buone e a che punto sì arrivate e… soprattutto quale fine ti prefiggi?” Dice incuriosito Ciro, tentando anche lui di parlare in un buon italiano.
Gennaro lo guarda incuriosito, prima di rispondergli, non è frequente sentire l’amico parlare o tentare di farlo, in maniera corretta.
“Vengo al dunque.”
“TU sai che dopo la vincita al Lotto (vedi “Il terno a lotto” N.d.A.) mi sono comprato un computer, di quelli potenti di ultima generazione.”
“O sacce, ma nun ‘ntenno che ce trase o compiuter cu Napule!” Gli chiede interdetto e provocatorio Ciro.
“Maronna mia Cì, ancora nun ave capito che quanno raggiune, io, ca so’ filosefo, parto dalle premesse, cui segue l’esposizione e, infine la conclusione che rappresenta, in questo caso che desidero trattare, un tipico ragionamento deduttivo.”
“Deduttivo? E che rè sta parola? Nun a sacce!”
“Che vuò sape’ tu, te chiamme Aristotele e nun sape nemmeno che questo ragionamento appartiene al tuo antenato? Io invece che mi chiamo Platone e sono stato l’ideatore del metodo contrario: quello induttivo, che inizia dal fenomeno particolare per risalire al concetto universale, adopero quello “tuo” perché sto cercando di fare un discorso che inizia da un concetto universale per arrivare ad uno particolare, se solo ci riesca e tu non m’interrompa più!”
“Uh stai addiventanno sempe cchiù furesto, l’anima ‘e chi t’è muorte!” Gli dice piccato Ciro esortandolo ad andare avanti.
“Bene, riprendiamo il discorso.”
“Il computer, senza la i – riprende Gennaro guardando negli occhi Ciro che lo ricambia facendo le spallucce e senza parlare – mi ha offerto l’occasione di conoscere molto dei nostri antenati e degli altri filosofi, utilizzando Internet, uno strumento che velocemente ti offre numerose possibilità di apprendimento e di approfondimento su tutto e, quindi, anche sulla filosofia.”
“Non ti chiedo nemmeno se tu sappia che cosa sia Internet, dopo la figuraccia con deduttivo…”
“Chesto o sacce… è ‘na cosa che si naviga, cumme se fusse ‘nu mare, ‘nu mare d’informazioni, meglio dell’enciclopedia!” L’interrompe Ciro, soddisfatto di fargli vedere che anche lui è “aggiornato”.
“Va buone Cì, agge capito ca nun sì completamente ciuccio, ma sempe ‘nu pucherillo trappano ‘o sì, ‘nu trappano, però, che fa’ ‘e pizze buone assaje!”
“Grazie, cumme ‘o solito signor Platone: troppo buono!” Risponde con sarcasmo Ciro.
Trattenendo a stento il riso, Gennaro prosegue.
“Su Internet mi sono informato, ho appreso altre cose che non sapevo e mentre navigavo, ho avuto un’intuizione che non sarà culturalmente giustificata ma che, a me, sembra, pur nella sua ingenuità e semplicità, pienamente rispondente alla nostra realtà di Napoli e dei suoi abitanti.”
Gennaro fa una pausa e si compiace di aver catturato l’attenzione di Ciro che lo guarda con un’espressione di curiosità mista al desiderio di sentire dove porterà il suo “ragionamento”.
“Bene, vedo che sei attento ed interessato. Ora, seguimi bene.”
“Tu ben sai che i nostri “antenati” hanno vissuto contemporaneamente e che tu sei stato il mio discepolo nella fiorente ed illuminata città di Atene.”
<’nata vota cu sta cosa d’o discepolo soje!> Mugugna a mezza bocca Ciro.
“Sì lo so!” risponde secco, Ciro.
“Atene si può ben definire la culla della filosofia, se si pensa a Socrate che ha influenzato un giovane Platone dopo che il maestro di questi, Crotilo, lo aveva avviato alla filosofia di Eraclito, alla sua successiva frequentazione con Euclide, nei suoi soggiorni a Siracusa, da cui tornò definitivamente ad Atene, intorno ai quaranta anni, dove fondò la famosa Accademia. Anche il giovane Aristotele subì l’influenza di Platone, per poi elaborare una dottrina originale che si discostava molto da quella del suo grande maestro.”
“Atene quindi, considerando lo sviluppo successivo del pensiero filosofico che, per secoli, ha avuto i suoi più importanti punti di riferimento in Platone ed Aristotele, può senz’altro definirsi la culla del pensiero filosofico mondiale.”
“T’è piaciuta questa introduzione?”
“Sì, sì, m’è piaciuta… ma Napule cumme ce trase?”
“Già, ora vengo al punto.”
“Finora ho parlato dei grandi filosofi, di quelli universali, ora arrivo a quelli particolari, più piccoli, ma non meno importanti. Non mi riferisco a Giordano Bruno, Gianbattista Vico, Giovanni Gentile e Benedetto Croce, tutti filosofi di area napoletana, importanti ma pur sempre teorici del pensiero, mi riferisco a tutte quelle migliaia, anzi milioni di persone che hanno vissuto a Napoli e dintorni, nel corso degli ultimi secoli, dal medioevo in poi, che hanno patito, umiliazioni, soprusi, saccheggi, occupazioni e tirannie. Si va dall’alto Medioevo, con i Normanni e gli Svevi, nel basso Medioevo, gli Angioini, gli Aragonesi, gli spagnoli, fino alla dinastia dei Borboni che, con l’intervallo dei francesi, è durata fino all’acquisizione al regno d’Italia ed ai Savoia.”
“Noi cittadini di Napoli abbiamo visto di tutto e sopportato, spesso per la violenza di chi ci governava, tutte queste vicissitudini che hanno generato, quale reazione istintiva e naturale, una capacità di adattamento e di reattività a qualsiasi genere di avversità e di problemi. Questa forma di rassegnazione, si può, a buon diritto, definire una vera e propria filosofia di vita, terrena, pratica, spicciola, che ci consente di affrontare, senza soccombere a tutti i malanni ed i guasti che ci possano capitare, magari anche per causa nostra, ma dai quali sappiamo uscire sempre grazie alla nostra fantasia ed intelligenza che coniugate all’abilità di sapersi adattare e di sfruttare, a proprio vantaggio, ogni situazione, costituiscono la Filosofia napoletana. Una scuola di pensiero che non tratta argomenti elevati e superiori, di sistemi etici e delle grandi problematiche del pensiero, ma della sopravvivenza quotidiana, del mandare avanti la famiglia, arraggiandosi a sfruttare al massimo le opportunità che si presentano ed affrontando le difficoltà con serenità e bonomia.”
“Gennà chesto c’hai ritte mò è overo! Noje nun c’abbattimme maje, simme sempe pusitive, cu l’ajuto d’a Maronna tutto s’accuonce…”
“Bravo Ciro è proprio questa qualità del nostro carattere, l’arma vincente per superare ogni difficoltà e andare avanti. Tutti ce la riconoscono e ce la invidiano. Spesso la usiamo a sproposito e per fare cose ai confini della legalità, ma piano piano impareremo pure a rientrare nella normalità, ma senza perdere quell’ottimismo e quella comunicativa che ci rende speciali.”
“Allora, caro Ciro, posso affermare o no che: Napule è ‘a connola (culla) d’a vera filosofia d’a vita cumune!”
“Cierte Gennà, simme noje napulitane e più gruosse filosofe, anche si nun se chiammane Platone e Aristotele cumme a noje!”
“A proposito caro collega.” Rivolto a Ciro.
“Dimme Gennà.”
“Ma cumm’è ca tu, in tant’anne, nun m’ave mai fatte ‘na pizza filosofica?”
“Che rice, te l’agge fatta tante vote, tutte e vote ca te sì magnate ‘a pizza!”
“Me stai sfrugugliando Cì, io nun l’agge mai magnata.”
“Uè, penzece buono, sì filosofe, tu nun ave mai pavato ‘a pizza mia, cu li renare, ma sulo cu ‘o pensiero, forse, e io te l’agge sempe appriparate cu ‘a filosofia mia che me t’ha fatte suppurtà pe’ tant’anne!”
Gennaro lo guarda interdetto, colpito ancora una volta dalle battute argute e pungenti di Ciro che gli lasciano sempre il segno.
“Ce sì rimaste strane eh! Tu tene ‘a lingua cchiù filosofica, ma ’a mia ce sape fa buone pur’essa!”
Su queste battute, si chiude l’ennesima ‘elucubrazione’ dei nostri filosofi.
I PARADOSSI DI ZENONE
Napoli. È un pomeriggio soleggiato di luglio, in cui il caldo estivo non risparmia la città dalla sua torrida temperatura.
Alcuni fortunati, però, riescono a contrastare la calura grazie ai condizionatori d’aria che ristabiliscono il giusto grado di temperatura e di umidità.
Uno fra questi è il nostro amico Gennaro Platone che sta, tranquillamente, a godersi il refrigerio del climatizzatore nella stanza della sua casa adibita a “studio”, dove sempre più spesso si ritira per continuare a leggere i libri di filosofia del suo “antenato”, dei suoi predecessori, dei suoi contemporanei e dei filosofi che nel corso di secoli hanno portato il loro contributo di conoscenze e di pensiero all’evoluzione della scienza filosofica.
Egli, nel corso degli anni, si è fatto una discreta biblioteca specifica, implementata recentemente da nuovi testi, grazie alle sue continue visite nelle librerie.
La vincita al lotto, condivisa con il suo “collega” Ciro Aristotele (v. il terno a lotto), gli ha permesso, oltre a restaurare il suo piccolo appartamento per renderlo più confortevole, di acquistare un personal computer di buona qualità e caratteristiche e di arricchire la sua biblioteca. Non avendo più quella ristrettezza economica che, prima della vincita, lo induceva a fare qualche lavoretto saltuario per integrare la modesta pensione di cui gode, ora può affrontare anche altre spese che non siano quelle destinate alla quotidiana sopravvivenza.
Così, grazie alle risorse di cui ora dispone, può, con più serenità, dedicarsi alla sua passione per la filosofia. Maturare una preparazione che, grazie allo studio ed all’approfondimento continuo, sia tramite Internet, sia con l’ausilio dei suoi libri, lo stanno portando ad una maggiore consapevolezza della materia ed a una conoscenza più completa e culturalmente più valida della filosofia, anche se le sue basi culturali, sono modeste perché le condizioni economiche della sua famiglia non gli hanno consentito di proseguire gli studi, oltre la licenza media.
Ciò che negli anni passati era solo una velleità priva di fondamenta culturali adeguate e che, molto spesso, procurava solo l’ilarità degli ascoltatori delle sue affermazioni e di chi assisteva alle discussioni “filosofiche” fra lui e Ciro, ora si sta evolvendo verso una più consapevole e seria padronanza delle tematiche filosofiche, sulle quali, i suoi interventi non sono più così superficiali e ridicoli, come in passato. Una naturale predisposizione intellettiva, unita ad un’intelligenza brillante e all’importante “nome” che porta, stanno facendo sì che possa sostenere con rigore le argomentazioni più disparate, cui applica una logica speculativa degna del nome.
Non sarà certamente un professore di filosofia e le lacune di cui soffre non si colmeranno più, ormai, ma il suo linguaggio ed il suo ragionamento quando esercitati per argomenti “seri” stanno diventando degni di apprezzamento.
Se n’è reso conto anche Ciro che, fin da quando si conobbero, da ragazzi, gli ha fatto sempre da spalla, surrogando la sua ignoranza e la sua capacità logica, naturalmente inferiore a quella di Gennaro, con la sua schiettezza ed arguzia, qualità tipicamente napoletane, con le quali, spesso tiene testa al più ferrato amico che, spesso, rimane positivamente colpito dalle sue affermazioni.
Vediamo cosa lo sta occupando oggi.
Sulla piccola scrivania, dove trascorre molto del suo tempo dedicato agli approfondimenti della “sua” disciplina culturale, sta scorrendo le pagine di un libro che descrive la storia della filosofia antica greca, fino ai sommi maestri Platone ed Aristotele.
Già altre volte aveva letto delle scuole che avevano preceduto i due grandi pensatori, ma non aveva approfondito mai i loro argomenti ed i loro appartenenti. Il suo approccio era stato sempre superficiale e solo nozionistico.
Leggendo con attenzione s’imbatte nella scuola Eleatica, cosiddetta perché il suo fondatore Parmenide, era di Elea, cittadina della Magna Grecia. Di lui restano pochi frammenti di un poema sulla natura in cui si tratta della “verità”. Tutto il resto, riguardante il suo pensiero, si può ricavare dall’opera Parmenide di Platone che narra anche di un incontro piuttosto movimentato per contrasti di pensiero tra lui, già anziano, ed un giovane Socrate.
La sostanza del suo pensiero riassunta in sintesi era questa: l’Essere è uno solo, non ci possono essere due esseri; l’Essere è immobile, non soggetto al divenire; l’Essere è eterno, non generato ed immortale, perché se fosse generato, sarebbe non essere prima della nascita e dopo la morte; L’Essere è anche indivisibile.
Dopo aver letto queste considerazioni, Gennaro si alza e si affaccia alla finestra per riprendersi da un comprensibile stordimento che questi concetti letti più volte gli hanno causato.
“Maronna mia che male ‘e capa! Certo che chiste filosefe tenevano ‘na capa tante e che sfaccimme de penziere avevene!”
“Mò ce vole ‘na bella tazza ‘e café, m’agge a scetà buone…ma che fatica…”
Rinfrancato dal caffè, s’immerge di nuovo nella lettura del libro.
Riprende il filo della narrazione su Parmenide e s’imbatte in un altro nome, mai incontrato prima: Zenone.
“Zenone? Chi è costui?” Dice ad alta voce facendo il verso a don Abbondio, di manzoniana memoria, che si è espresse nello stesso modo leggendo del filosofo Carneade, prima dell’incontro con i Bravi.
Gennaro prosegue e scopre così che era l’allievo prediletto di Parmenide che difendeva le tesi del maestro, con spiegazioni paradossali che sono rimaste famose nella storia della filosofia.
“Vire nu poco chiste che ave cumbinato: ave ammentato la logica primma de’ sofisti e cu e soje “paradossi” ha cercato e dimustrà il divenire pur sustenenno che l’essere è immutabile ed eterno!” Dice ad alta voce, cercando così d’inculcare bene questi ostici concetti.
Prosegue la lettura: ”I paradossi di Zenone vogliono dimostrare l’impossibilità del molteplice; ciò che appare non ha alcuna importanza, perché la verità è comunque quella alla quale si arriva logicamente per mezzo della ragione.”
“Riceva buone isse ma nun agge capito molto de ‘sta ccosa!” Fa Gennaro sempre a voce alta.
Continua leggendo i paradossi che resero noto Zenone e, fra tutti, quello che più lo colpisce è anche il più celebre, conosciuto come il paradosso di Achille e la tartaruga. Diventato famoso proprio per la contrapposizione dei due soggetti dotati di capacità di movimento talmente differenti da far sembrare impossibile ed assurdo (paradossale, quindi) che Achille non avrebbe mai raggiunto la tartaruga…
“Maronna chista sì che è ‘na bell’occasione pe’ raggiunà cu Ciro. Già me pare e veré a faccia soja, quanno glie diche che Achille va cchiù chiane de ‘na tartaruga e ‘ngarrasse a farglielo ‘ntennere!”
Gennaro continua la sua lettura. Vuole prepararsi al meglio per affrontare questa discussione con Ciro, alla prima occasione possibile. Il suo viso mostra un’espressione di compiacimento maliziosa, pregustando le sue reazioni ad un tale argomento, che gli permetteranno di dileggiarlo, come sempre avviene in questi casi.
Non è trascorso molto tempo perché, come spesso accade, il lunedì successivo, giorno di chiusura della pizzeria, Ciro si dice disponibile ad incontrarsi con Gennaro per fare una passeggiata nella loro amata città, non avendo altri impegni.
L’appuntamento è fissato alle dieci nel bar di don Gaetano, amico di lunga data e dove frequentemente si recano a prendere il caffè, noto per la sua bontà.
Gennaro arriva in leggero anticipo, entra salutando platealmente don Gaetano.
“Salutamme don Gaetà, o facite ancora bbuono o café? Posse aspettà l’ammico mio Ciro, assettate a nu tavulino?”
“Vuje, signor filosofe putite fa chello che cchiù ve piacesse, site sempe o bemmenuto rinto o bar mio!”
“Ué e ch’erè tutta ‘sta finezza ogge, avite dormito bbuone e accussì site meno scostumato d’o soleto?”
“È la vostra presenza ca me mette ‘e buonumore, sig. Filosofe!”
“Va bbuone agge capito, ‘a sceneggiata l’avimme fatta, mò a putimmo pure fernì.”
Risponde Gennaro con sussiego, tradendo il compiacimento che prova in questi ironici scambi di battute.
“Siente Gaetà, te posse dimannà ‘nu favore?”
“Cumme, nun putite, dimannate pure.” Risponde gentilmente Gaetano.
“Tra poco verrà Ciro e vurria ‘mbastì ‘na discussione filosofica de chelle ‘nu pucherille complicate e me piacesse ca tu e anche l’ate ammici toje che stanne cà, me faciste da cumpare, per metterlo in mieze.”
“Noje simme a disposizione, specialmente si ce scappe a rirere!” Afferma Gaetano guardando gli altri avventori e amici all’interno del locale.
“Buone, buone accussì!” Replica soddisfatto Gennaro.
“Lassate fa a me e quanno ve pare, intervenite pure!”
Trascorrono pochi minuti ed ecco entrare Ciro.
“Bona jurnata a tutte quante!”
“Bona jurnata anche a te Cì”
Rispondono quasi all’unisono tutti presenti, non senza lasciare un po’ perplesso Ciro.
“Ué e che è succiesse ogge, è a jurnata d’a crianza?” Fa guardandosi intorno.
“Nun è mai succiesse ‘na cosa accussì, state buone?”
“Sì Cì, stamme bbuone, pe ‘na vota che avimme piacere e verè pure a te oltre a Gennaro, te sì meravigliato?” Gli dice Gaetano.
Gennaro, prende al volo l’occasione, grazie al suo intuito, per creare la sceneggiata promessa.
“Eh, caro Ciro come ha visto, hai assistito ad una situazione paradossale…” Lascia volutamente l’eco di tale aggettivo nell’aria.
“Tu sai certamente cos’è un paradosso, no?” Gli chiede a bruciapelo, facendo, nel frattempo segno a Gaetano che il sipario è aperto.
Ciro, ancora confuso, non afferra con precisione ciò che gli sta chiedendo Gennaro.
“Che agge a sapé che cos’è o…o dosso, o padosso, nun agge sentuto bene.”
“Paradosso, Ciro.” Gli ripete Gennaro scandendo bene la parola.
“Ah, o paradosso…è chello ca se truva in coppe a e strade e che nun te fa veré annanze si vene n’ata machina.”
A questo punto la risata dei presenti scoppia fragorosa e Ciro li guarda incredulo.
“Ciro nun te preoccupà, cumme pe’ strade ce stanno i paracarri, ce stanno pure i “paradossi”, tene raggione!” Esclama ridendo ancora Gennaro e, con lui, tutti gli altri.
“Uè, guagliò, avite deciso de sfrugugliarme o mazzariello tutte quante ogge?” Fa piccato Ciro. “Si è accussì, me truvate buone, jamme!”
“No Ciro, non te la prendere.” Interviene con voce melliflua Gennaro.
“A canosche ‘sta voce Gennà, tu me stai mettenno in mieze a quacche discussione!”
“Vero Ciro, hai ragione, dopo tanti anni è difficile prenderti alla sprovvista.”
“In ogni caso, non conosci il significato di paradosso e questo, per un “filosofo” che si chiama Aristotele, è grave, molto grave.” Gli risponde con un’aria di sufficienza.
“Il paradosso non ha niente a che fare con le strade della terra, ma ha a che fare con le “strade” del pensiero. Esso è: un argomento che sembra contraddire il senso comune, ma che all’esame critico, compiuto con la logica, si dimostra corretto.”
“Questo caro don Gaetano e tutti quanti voi che prima avete riso, vale anche per voi, perché non credo che tutti sappiate il vero significato della parola…”
“Meno male, vulisse verè ca sul’io ero o chiù sciemo ca in miezo!”
“Lasciamo stare Ciro, tu avresti dovuto saperlo, ma pazienza, per fortuna che ci sono io che t’illumino di scienza!”
“Torniamo a noi. Il paradosso cui mi riferivo prima, consisteva nel fatto di aver visto una volta tanto tutti i signori qui presenti gentili ed educati nei nostri confronti, se si considerano tutti gli scherni di cui, don Gaetano ed i suoi amici, ci hanno sempre fatto oggetto quando entriamo in questo modesto bar.”
Don Gaetano fa l’atto di replicare ma, poi, lascia correre.
“Ora veniamo ad una dimostrazione pratica di quanto possa essere reale un paradosso.”
Nel bar scende un improvviso silenzio: tutti sono curiosi di sentire dove Gennaro vada a parare.
“Per spiegarlo bene, mi devo rifare a un filosofo precedente a Socrate, discepolo di Parmenide, di nome Zenone. Egli elaborò alcuni paradossi per dimostrare la correttezza del pensiero del suo maestro, ora ve ne enuncio uno che vi meraviglierà!”
Soddisfatto di aver catturato l’attenzione dei presenti, Ciro compreso, nonostante la sua espressione indifferente, Gennaro continua.
“Tutti voi conoscete il famoso Achille, l’eroe, cantato da Omero, che partecipò e vinse la guerra di Troia.”
Si leva un brusio nel bar di conferma.
“Che cosa aveva di particolare Achille che lo rese famoso, oltre al tallone?”
“Era un uomo velocissimo, un atleta!” Risponde Ciro, compiaciuto di riscattare in parte la magra figura fatta in precedenza.
“Bravo Ciro è così, fu definito, infatti: il piè veloce Achille!”
“Bene, secondo voi, poteva Achille messo a confronto con una tartaruga, non riuscire mai a raggiungerla se solo questa avesse avuto anche un piccolo vantaggio rispetto all’eroe?”
A quel punto si leva un coro di risate frammiste alle più svariate considerazioni legate all’assurdità della situazione.
“Né Gennà che strunzate vai ricenno, nun può essere che ‘n omme e pure veloce cumme Achille nun riesce a raggiungere ‘na tartaruga!”
Senza replicare ai commenti salaci degli astanti, Gennaro riprende la parola.
“Adesso cerco di spiegarvi il ragionamento di Zenone, anticipandovi che non è facile da assimilare, quindi, prestate bene attenzione.”
Ottenuto di nuovo il silenzio, Gennaro si avventura nella spiegazione.
“Seguite bene quello che sto per dirvi: Achille concede un vantaggio alla tartaruga, quando lui raggiungerà il punto i cui era arrivata la tartaruga, questa sarà avanti a lui di un altro tratto e così di seguito. Ci sarà sempre uno spazio, per quanto piccolo sia, che chiederà un certo tempo per percorrerlo e siccome tutti i tratti intermedi sono frazionabili ed essendo lo spazio divisibile fino all’infinito, anche i tratti da percorrere sono infiniti quindi, Achille non raggiungerà mai la Tartaruga, perché è come se non si muovesse mai, nell’impossibilità di uscire dalla serie infinita di segmenti…”
Un silenzio tombale avvolge il bar, tutti i presenti stanno tentando di elaborare a modo loro quanto detto da Gennaro. Confusamente tutti hanno afferrato il concetto del paradosso, ma assimilarlo è tutt’altra cosa.
“Allora Ciro questo famoso paradosso di Zenone ti è chiaro, anche approssimativamente, poi, possiamo approfondirlo con più calma ed in una sede più adatta.”
“Sì, Gennà è meglio accussì, n’avimme a riparlà con calma.” Risponde Ciro turbato e confuso.
“Caro Ciro, come ti ho già detto altre volte tu, dovresti cambiar nome, perché di filosofico hai solo quello, e non lo puoi trascinare al tuo infimo livello. Lo potresti cambiare in “Pizzostele”, una fusione tra pizza e Aristotele, lo vedrei più adatto.”
Ciro gli replica fulmineamente: “ Tu pure putisse cagnà o cugnomme in “Piattone”…”
Lascia volutamente cadere quest’affermazione in attesa della replica di Gennaro, che non si fa certo attendere.
“Ah sì e che significherebbe Piattone?”
“Ah, ah, chisto nun l’hai capito signor grande filosofe, pure tu sì ‘nu pucherille lento de cervielle!”
“Va buone ave raggione, ma dimme che sarebbe stu Piattone?”
“Semplice, no? Piattola più Platone uguale Piattone, perché uno più scucciante e te nun l’agge mai conosciuto, te sì azzeccato cumme ‘na piattola e nun te riesche a levà a mieze!”
Questa battuta pronta di Ciro suscita l’ilarità di tutti e alleggerisce il clima pesante che l’elucubrazione di Gennaro aveva creato.
Anche Gennaro, facendo finta di niente, l’ha apprezzata e si rivolge a Gaetano: “Né don Gaetà ce li vulisse fa e cafè a tutte quante o te si fermate cumme Achille e nun arrive a ‘e tazzulelle?”
L’AMMORE
Napoli.
È una tipica giornata primaverile, una di quelle che fa dimenticare l’inverno appena terminato ed invogliano a vivere con più energia e con più intensità.
La natura si risveglia dal suo forzato riposo invernale e tutti, dagli animali, alle piante e finanche all’uomo, sono coinvolti in quest’annuale ciclo di rinnovamento e di continuazione delle specie.
Non possono rimanere immuni da queste sensazioni anche i nostri ineffabili amici filosofi che troviamo, con un atteggiamento quasi ieratico, poggiati sul muro che delimita via Caracciolo dal mare. Il loro sguardo fissa con compiacimento il golfo di Napoli e grazie all’aria tersa possono distinguere bene il Vesuvio e tutte le cittadine che, senza soluzione di continuità, si adagiano sul mare da Napoli verso punta Campanella, ultima propaggine della penisola sorrentina, protesa verso la vicina isola di Capri.
“Eh!” Sospira Gennaro “Che spettaculo, maronna da rummanè senza sciato e poi chest’aria ca ma scumbine tutte quanto. Me siente ‘ncuollo cumme ‘na freva ca m’appiccia, ‘na frennesia ca me scutulea tuttu quanto!” Segue un altro sospiro prolungato.
Ciro che ha seguito l’affermazione di Gennaro con un ironico e malizioso sorriso dipinto sul suo volto, non si lascia sfuggire l’occasione per punzecchiare il suo amico, nonché “collega” filosofo.
“Overo Gennà tiene raggione, anch’io me siente ‘nu pucherille curiuse cumme a te!” S’interrompe per vedere se Gennaro reagisce o no.
“Pure tu pruve ste ‘mpressioni? Allora nun so sul’io!”
“No Gennà è a primavera che te scotoleia tuttu quanto…so’ gli ormoni ca se scetano pur’isse. Noje pure simme animale, pure si in pizzo a scala evolutiva, e o cuorpe nuoste c’avvise ca c’avimme a praparà all’ammore, pe’ continuà la razza!”
“Né Ciro ma che canchero vai ricenno…!” Gli risponde lanciandogli un’occhiata fulminante.
“Io parlo di sensazioni, di emozioni che mi procura la vista di tanta bellezza che sta di fronte a noi, fino a farmi commuovere e tu te n’esci con questi discorsi alla Piero Angela e blateri di animali, di pulsioni sessuali tese alla propagazione della specie! Continuo sempre a dire che tu non sia degno del nome che porti: Aristotele!”
<O vì loche, parle italiano, l’agge sfruculiate buone e isse c’è carute rinto sano sano> Pensa Ciro, già pronto a proseguire la sua provocazione.
“Uè Gennà t’a si presa p’accussì poco?” “Io me chiamme Aristotele e tu Platone e va bbuone, ma sti doje filosefi erano mascule o no?”
“Che ce trase st’addumanna, mò, Ciro? Erano maschi sì e allora?”
“Allora si erano mascule, futtevano anch’isse, penze, cu ‘e femmene e… pure cu l’ommene quacche vota, o no?” Gli fa con aria furbetta.
Gennaro, ormai, è invischiato in questa discussione di cui oggi avrebbe fatto a meno, ma, nel contempo, non può tirarsi indietro, non l’ha mai fatto e non l’avrebbe fatto ora, dando soddisfazione all’amico Ciro ed alla scuola di pensiero dell’antagonista Aristotele che fu discepolo di Platone.
“Caro il mio stolto, superficiale e sempliciotto amico, che mal rappresenti, anche in minima parte, il grande filosofo del quale porti ignominiosamente il nome…
“Uè Gennà nun accumenzà a dì strunzate e a ‘nzurtà, sinnò me ne vade via subbeto!” l’interrompe Ciro.
“Ciro, prima, sfruguglie ‘o mazzariello e aroppe t’offennesse si te riche quello ca tu sii?” gli dice con uno sguardo che non ammette repliche, quindi prosegue:
“Non ho dubbi ad affermare che anche i nostri antenati, spinti dalle pulsioni fisiche, avessero dei rapporti fisici, il che è naturale come mangiare, dormire e tutte le altre funzioni corporali.” Si sofferma per guardare se Ciro lo seguiva o continuasse a guardare il mare.
“L’idea dell’amore che i nostri padri filosofi avevano era molto concettuale ed intimamente legata alla spiritualità. Per Platone l’amore era il desiderio di possedere il bello ed il bene, come noi prima stavamo amando la nostra città ed il territorio circostante per la sua bellezza e che sentiamo e desideriamo come nostri. Questo percorso di apprezzare la bellezza di un corpo è un passaggio per comprendere la bellezza nelle anime e la bellezza nella scienza. La forma d’amore più alta, se casta, è quella fra uomini, come noi due, ad esempio.”
“Ué Gennà che vai ricenno io te voglio bene, ma parlà d’ammore fra noje, me pare nu pucherillo esagerato, io tengo mugliera e sto bbuono accussì, tu cchiuttosto ca si sulo cummenze a cagnà idea? Pure si fusse nun sii o tipo mio!” Replica Ciro facendo finta di aver capito male per provocare Gennaro.
“Maronna d’o carmine… sii propre ottuso! L’amicizia era una forma d’amore se non c’era sesso fra gli amici, solo nel caso ci fosse un’intenzione educativa, si tollerava il sesso fra l’amante docente e l’amato discepolo. Nel caso tuo dovrei far sesso tutti i giorni con te, per educarti e migliorarti e sarei proprio un depravato, per ricevere poi solo qualche pizza in cambio, ogni tanto!”
A questo punto Gennaro e Ciro si guardano dritti negli occhi. Ognuno si sforza di restare serio, ma non ci riescono e sbottano in una fragorosa risata che desta l’attenzione di alcuni passanti che da come li guardano, sembra che pensino che siano già ubriachi di mattina.
“Pienze Gennà io e te comme doje ricchione… in tant’anne nun c’avisse mai penzato!” Dice Ciro asciugandosi le lacrime dal gran ridere.
“Che dici Cì, forse abbiamo perso qualche cosa?” gli risponde sbottando di nuovo a ridere Gennaro.
“No Gennà, avimme perso sulamente nu cazze per uno!”
A quest’ultima battuta Gennaro si piega in due dal ridere e anche per trattenersi dal farsela sotto.
Dopo alcuni secondi, entrambi riprendono l’atteggiamento normale e consueto, mentre la città continua a rumoreggiare intorno a loro con l’abituale chiasso delle auto, dei clacson, delle voci urlate, ecc.
“Siente Gennà sta cosa dell’omosessualità ai tempi di Platone a sapeve già: la concezione dell’amore era basata sul fatto che uno amava e l’altro si faceva amare, uomini o donne che fossero e i rapporti omosessuali erano molto diffusi. Per Aristotele l’amore è un’affezione dell’uomo che nasce dalla sua deficienza e, in quanto tale, è o amore fisico o amicizia.”
Gennaro guarda stupefatto l’amico, è la prima volta che lo sente disquisire compiutamente di filosofia senza dire fesserie.
“Gennà sta cosa l’ho approfondita anch’io e primma ave fatte apposta a tirarte into a discussione sull’ammore, pecché vulive verè ca succereva.”
“L’anneme de chi t’è muorte m’avisse pigliato in giro e ce sii ‘ngarrate bbuone, e bravo!”
Sono quasi quaranta anni che questi due amici si conoscono, si punzecchiano, si stuzzicano durante le loro discussioni “filosofiche” che hanno comunque consolidato un’amicizia che può sicuramente assimilarsi alla concezione di amore platonico fra due uomini, purché casto.
Lentamente si allontanano da via Caracciolo per tornare alle rispettive case: Ciro dalla moglie Carmela per pranzare insieme e trascorrere il resto della giornata con lei e con il figlio, come accade nei giorni di chiusura settimanale della pizzeria; Gennaro nella sua casetta ristrutturata da poco grazie alla vincita al lotto.
Dopo pochi minuti trascorsi in silenzio Ciro, rivolgendosi a Gennaro:
“Gennà te puote fa ‘n’addumanna?”
“Certo Cì, dì pure!”
“Ecco… è da tanto ca te vulive dimanna ‘na cosa…” fa Ciro con un po’ di titubanza.
“Agge capito Cì, fammella pure st’addumana, ca tene scuorno?”
“No, no è ca è ‘na cosa delicata, personale, nun vulisse ca t’a pigliasse malamente…”
“Maronne, jamme, so’ tant’anne ca ce canoscimme e tu penze ca m’a piglio a male!”
“Allora, siente… a preposito d’ammore, tu nun te sii spusate, nun t’agge quasi maje visto cu ‘na ‘femmena, si te canosce buono, cu ‘e zoccole nun ce vai, vulisse sapé cumme faje quanno te viè ‘a voglia ‘e fottere?”
Gennaro, spiazzato da questa domanda inattesa, resta interdetto e tradisce un po’ di difficoltà a rispondere.
“Ciro hai ragione, la domanda è lecita tra amici di tanti anni come noi. Tu ricordi che tanti anni fa sono stato in procinto di sposarmi un paio di volte, ma il mio carattere, il mio desiderio d’indipendenza mi ha, entrambe le volte, indotto ad evitare il matrimonio.”
Ciro avverte un tono di tristezza nella sua voce e non interviene e lascia che sia lui, se vorrà, a rispondere, senza pressioni da parte sua.
“Certamente il problema della compagnia e della vicinanza di una persona, dopo che si è superato i cinquanta anni, si fa sentire e sono cosciente che con l’avanzare dell’età sarà sempre più grande. La mia vita, però, è questa, per mia scelta, e non recrimino niente, quindi, continuo in compagnia della mia filosofia, della tua amicizia, della tua pizza e dei pochi amici che mi sopportano.”
Dopo una pausa silenziosa, Ciro vedendo che Gennaro in sostanza non aveva risposto alla sua domanda, gli fa:
“Questo l’agge capito e non sulo mò, ma io mi chiedo se tu riesci a stare anche senza sesso…manco li prevete ‘o fanno!” Riprende il discorso Ciro, mischiando italiano e dialetto.
“Il sesso non è tutto Ciro!” Sentenzia con enfasi Gennaro cercando di chiudere l’argomento.
A questa lapidaria risposta Ciro, dopo averlo guardato come si scruterebbe un extraterrestre, ha una delle sue uscite fulminanti:
“Agge capite Gennà: te fai ‘e pippe! ‘O putevi dì e subbeto, immece e fa tutte ste chiacchiere!”
Gennaro accusa la battuta ed arrossisce, Ciro se ne accorge, fa finta di niente e gli dice:
“Jamme addu me, oggi magne cu noje Gennà, Carmela ha appriparato ‘e maccarune cu o ragut de carne e ‘a parmigiana e mulignane!”
“Azz Cì, buone assaje, vengo con piacere assaje!”
“So cuntento Gennà… ma e pippe toje so’ ammeno platoniche?”
Così dicendo Ciro accelera il passo giusto quel tanto per evitare un calcio platonico nel sedere aristotelico.