Ore 3,32 di lunedì 6 aprile 2009

Il mio sonno, già leggero, è interrotto dai tremori e dai rumori tipici di un terremoto.

È la seconda volta, da quando abito in questa casa, sita vicino al sito archeologico di Villa Adriana, che un terremoto mi sveglia bruscamente e s’insinua nei miei sensi, suscitando ataviche paure, quelle che provavano anche i nostri progenitori, già nella notte dei tempi. Una paura antica, oscura ed incontrollabile, perché provocata da un fenomeno che nessuno può prevedere e controllare, di fronte al quale, in quasi tutti i casi, solo condizioni fortuite o tempestività di reazione possono evitare danni esiziali.

“Ma…questo è un terremoto!” dico concitato, mentre scendo dal letto.

“Ieri c’è stata una scossa nella zona dell’Aquila.” Aggiunge mia moglie.

In quel momento ho avuto la consapevolezza che, se questa scossa proveniva dall’aquilano, doveva essere stata molto forte per essere avvertita così intensa anche da me che sono a circa settanta km in linea d’aria dall’Aquila.

Scendo al piano terra per verificare se tutto sia a posto. Apro il portoncino blindato senza problemi, mi affaccio in giardino: tutto sembra normale, solo dei rumori lontani ed indistinti disturbano il silenzio della notte.

La memoria torna inevitabilmente al terremoto del 1980, nell’Irpinia, che percepii ancora di più, anche perché abitavo a Roma all’ottavo piano. Scoprii, poco dopo, durante lo stesso telegiornale cui stavo assistendo, comodamente seduto su una poltrona, che ondeggiò vistosamente sotto di me, che il sisma di magnitudo molto grande, si era verificato in Irpinia. La mattina seguente il quadro del disastro, pur provvisorio, era già grave, sia per l’ampiezza del territorio interessato, sia per i gravi evidenti danni.

Memore di ciò ho subito presunto, quindi, che se l’epicentro fosse stato l’Aquilano, viste le scosse precedenti, l’averlo avvertito così chiaramente, in quella zona poteva aver causato tragiche conseguenze.

Le prime edizioni dei telegiornali del mattino hanno confermato la mia previsione, purtroppo.

Ieri, venerdì Santo 10 aprile, si sono svolti i funerali pubblici di 205 dei 290 deceduti sotto le macerie.

290 storie di vite spezzate, 290 diverse una dall’altra, 290 futuri negati, 290 vittime della natura che ci illudiamo di poter controllare e gestire, ma che, ogni tanto, ci ricorda l’esiguità della nostra condizione e la grandezza della nostra presunzione e della nostra protervia.

A nulla serve recriminare ed insistere sulla prevedibilità di tali fenomeni. Anche le contromisure che si possono e si devono prendere, sempre con colpevole ritardo, possono contenerne e limitarne gli effetti, ma non garantiscono l’incolumità quando essi si presentino con caratteristiche superiori a quelle note finora, evento statisticamente probabile, anche se, fortunatamente, i tempi geologici sono molto lunghi. Ciononostante, i piccoli esseri che popolano questo pianeta, continuano a litigare fra loro, a non accettare la comune appartenenza al genere “umano” e a non capire che di fronte a questi apocalittici fenomeni la “Natura” non considera né il colore della pelle, né la religione di appartenenza, né il “colore” politico!

Continueranno ad ignorare l’eterno messaggio che la natura, inconsapevole, c’invia: la vita è un dono che potete apprezzare perché vi siete evoluti fino al punto di potervi porre le domande fondamentali sull’esistenza e su tutto ciò che vi circonda. Avete costruito e create opere meravigliose ma non siete riusciti a comprendere che quel breve anelito che è la vostra vita, può essere soffocato in pochi istanti! Smettete di combattervi con ogni mezzo e per ogni cosa! Vivete in pace ed in armonia!

Le 205 bare di ieri, anche questo tentano di comunicare… Milioni di bare, dall’inizio dei tempi fino ad oggi, non sono servite ad insegnare nulla.

Ecco perché di fronte ai resoconti delle piccole/grandi storie, sepolte anch’esse in quelle bare ed alla vista della foto scattata dall’alto della piazza d’armi, in cui sono ritratte tutte insieme, allineate ordinatamente, fra le quali spiccava quel piccolo cofano bianco adagiato su quello della madre a ricreare, con un’ispirata e poetica intuizione, il simbiotico rapporto madre/figlio, non sono riuscito a trattenere un pianto sommesso sulla nostra caducità e sulla nostra stupidità.

 

 

 

 

 

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