L’ULTIMA NINNA NANNA

 

Mimmo e Tonia si erano conosciuti al tempo delle scuole medie. Proseguirono, entrambi, lo stesso percorso di studi fino alla maturità, nel corso del quale, non ricordo bene a che età, ma erano ancora giovanissimi, la loro iniziale amicizia scolastica si tramutò in qualcosa di più profondo: in un legame che li avrebbe uniti per sempre.

Dopo l’università e l’entrata nel mondo del lavoro, come impiegato di un ente parastatale, lui, come insegnante di liceo, lei, formalizzarono giuridicamente e religiosamente la loro, già di fatto, solida unione.

Trascorso il tempo naturale, nacque la loro prima figlia, a cui fu imposto il nome di Francesca. I miei occhi della memoria me la rappresentano come una splendida bambina dalle fattezze delicate e dal fare gioviale ed allegro.

Un giorno…non ricordo come, ricevetti la notizia che Francesca, aveva un serio problema di salute. Aveva solo due anni. Durante uno dei soliti bagnetti Tonia, strofinando la sua schiena con il sapone, avvertì un ostacolo, una protuberanza appena accennata, che la mise giustamente in allerta, non immaginando minimamente che quella circostanza avrebbe mutato radicalmente la sua vita e quella di Mimmo.

La diagnosi fu infausta e la conferma di essa, espressa da più di un clinico oncologo, distrusse definitivamente le speranze che, nonostante tutto, i genitori devono avere.

Non credo di riuscire a comprendere cosa si possa provare in una situazione della specie e non provo nemmeno a rappresentarlo. Posso solo dire che i miei cugini l’hanno affrontata con una forza d’animo a me sconosciuta, perché suffragata da una profonda e sentita fede religiosa, che non mi appartiene. Talvolta, come in questo caso, provo un senso d’invidia nei confronti di chi è dotato di questo potente strumento che ti fa accettare tutto quello che di malvagio ti può riservare la vita.

Il male che si era subdolamente intrufolato nel piccolo corpo della mia nipotina, progrediva e cresceva succhiando le sue energie vitali, come un mostruoso parassita. A ciò, si aggiungevano i guasti collaterali perpetrati dalle cure, rivelatesi inutili, che trasformarono fisicamente e psicologicamente la bambina che conoscevo, nel suo esatto contrario.

Ricordo, infatti, tra l’altro, il suo rapporto con il fratellino, nato un anno, circa, dopo di lei, che, a causa della malattia, si era trasformato da giocoso a conflittuale. Succedeva spesso che lei lo aggredisse senza motivo alcuno, aggravando ancor più la tensione in famiglia, poiché si doveva porre attenzione anche a questi episodi che potenzialmente potevano essere pericolosi.

Francesca nel suo subconscio aveva realizzato la sua “diversità” e… chissà, forse, intendeva “punire” il fratello perché… stava bene.

L’inesorabile lavoro del “parassita” durò poco più di due anni, tra (pochi) alti e (molti) bassi, finché giunse alla sua crudele e stupida conclusione: esaurire il suo ospite per, poi, morire anch’esso.

Non mi ricordo chi affermò come non fosse giusto sopravvivere ai propri figli…

Il momento, ormai atteso, arrivò. Fui avvertito che la fine era giunta.

Il giorno dei funerali, mia moglie ed io, compimmo il viaggio dovuto, per raggiungere la città di Grosseto.

Entrai in casa, in preda ad un tumulto di sensazioni che niente e nessuno poteva mitigare, c’erano parenti ed amici, ma io non ricordo nessuno. Ricordo solo una scena che mi si è impressa, come una fotografia sull’emulsione dell’anima e che rivedo, con gli occhi della memoria, così nitida da farmi, ancor oggi, rabbrividire e piangere.

Mi affacciai nella stanza di Francesca. Nella semioscurità, la vidi stesa sul suo lettino, nella terrea immobilità della morte, con il corpo sformato dagli osceni insulti provocati dal male. Alla sua sinistra Tonia, china su di lei, quasi in ginocchio, le carezzava, con la mano destra, il volto, cantandole, anzi, sussurrandole, con infinita dolcezza, l’ultima ninna nanna.

 

 

 

 

 

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