IL BUCCHERO

È un tiepido e soleggiato pomeriggio primaverile, Cecilia è mollemente sprofondata nella poltrona, intenta a leggere un’opera di gran valore scientifico, sulle civiltà mediterranee preromane.
Il libro è ponderoso e dotto, come si addice ad un approfondito saggio di uno dei maggiori studiosi delle civiltà e delle culture sud Europee. Questo volume arricchisce e completa la già vasta cultura specifica di Cecilia, particolarmente appassionata di quel periodo che va dall’età del ferro sino all’epoca di Roma imperiale.
Cecilia sta leggendo la parte del libro relativa alle ultime teorie, ormai, in gran parte accettate dagli studiosi, sull’origine degli Etruschi, sulla quale, nel secolo scorso, si erano fatte numerose supposizioni, talvolta fantasiose e dotate di scarso rigore scientifico.
È accertato che le popolazioni che diedero vita alla cultura Etrusca, erano d’origine Tracia – Micenea e che poche migliaia di loro arrivarono sulle coste tirreniche, mentre altre arrivarono anche da altre direzioni (nord Italia, Adriatico), senza, però, modificare sensibilmente le culture preesistenti, di tipo villanoviano, anzi, assimilandone in parte alcuni aspetti. Dal VII al II secolo a.C. la civiltà Etrusca si sviluppò, perché questo popolo, che rappresentava una società guerriera, ebbe facilmente ragione delle più miti popolazioni italiche, incapaci di resistergli.
Gli stessi famosi sette re di Roma furono Etruschi.
La civiltà Etrusca, si può, a buon diritto, definire la prima grande civiltà italiana, con l’unica pecca che non divenne mai una “nazione” Etrusca, a causa dei forti sentimenti d’individualità delle singole comunità, che si riconoscevano nella Lega delle 12 città: Caere, Tarquinia, Vulci, Volsini, Veio, Roselle, Vetulonia, Populonia, Chiusi, Perugia, Arezzo e Volterra.
Ognuna di queste città era un piccolo regno a capo del quale c’era il Lucumo (o Lucumone) vestito con un manto di porpora e cinto da una corona aurea. Egli era sempre scortato da guardie che recavano i segni del suo potere: la scure, per giustiziare; un fascio di verghe per frustrare. Queste insegne del potere furono in seguito adottate anche dai magistrati romani.
Subito dopo il Lucumone venivano i Magistrati (una specie di Senato) e le cariche amministrative e sacerdotali.
Questa era la classe dei padroni.
Tutti gli altri appartenevano alla classe dei servi.
Il sistema, rigidamente a caste, non consentiva di accedere alle classi superiori.
I servi, considerati una ricchezza, erano ben trattati e considerati.
La famiglia era molto legata e, cosa unica in quel periodo storico, pur se la filiazione prendeva il nome del padre, la donna, (la madre) aveva il prenome come il marito ed un posto ed un’autorità nella società etrusca, sconosciute nelle altre civiltà contemporanee e successive. Erano, per dirla in termini moderni, più emancipate delle altre donne e delle romane, in particolare.
Tutte queste caratteristiche sociali della civiltà etrusca, sono ormai acclarate e confortate dai numerosi reperti archeologici, provenienti dalle ricche e sontuose necropoli, dove dall’antico rito della cremazione, si passò a quello più orientaleggiante dell’inumazione, in tombe che riproducevano le abitazioni dei defunti, corredate di numerosi oggetti d’uso quotidiano. Non mancano in esse, pregiati affreschi raffiguranti scene di vita comune e/o mitologiche. Anche nelle tombe si manifestava il desiderio di sfoggiare e di ostentare la propria ricchezza ed opulenza, tipico degli Etruschi.
La mancanza di un’identità nazionale fu la causa che li portò alla decadenza ed alla sottomissione a Roma che, a differenza degli etruschi, aveva acquisito una forte coscienza della “romanità”.
La cacciata dei Tarquini da Roma nel 509 a.C. segna la data dell’inizio del disfacimento della civiltà etrusca. A quest’episodio seguì una serie di battaglie perse sia a nord che a sud dell’Etruria, ivi compresa la conquista di Capua, da parte dei Sanniti nel 423 a.C. La definitiva conquista romana dell’Etruria, pose la parola fine alla civiltà etrusca, di cui si persero pian piano le tracce, fino alla sparizione dell’alfabeto etrusco sostituito da quello latino, dopo il 280 a.C.
Nel giro di un paio di generazioni scomparve anche la lingua etrusca che nessuno più parlava.
Tutte queste nozioni, sinteticamente riportate, aggiornate in base agli ultimi studi, sono l’oggetto dell’intensa e partecipe lettura di Cecilia.
Ad onor del vero, bisogna dire che questa lettura, insieme con altre fatte nei giorni precedenti, sull’argomento etruschi, non nasceva solo dal desiderio di approfondire un periodo storico a lei noto e gradito, ma anche dalla volontà di aggiornarsi sulle ultime novità scientifiche sull’archeologia, sulla lingua e sugli usi degli etruschi. Tra pochi giorni, infatti, Cecilia farà parte di un gruppo di studiosi, chiamati a riorganizzare il settore etrusco dei musei vaticani e lei, come sempre, ci tiene ad essere informata e preparata il più possibile.
Sono circa le otto e trenta, quando Cecilia scende dal taxi davanti all’ingresso dei musei vaticani. Scorge già una parte del gruppo dei colleghi di lavoro, con cui ha condiviso numerose altre iniziative scientifiche e culturali e, con alcuni di loro, anche il percorso degli studi universitari e della specializzazione.
Dopo i saluti di rito, tutti si avviano al vicino bar per fare colazione insieme ed approfittare per aggiornarsi sugli ultimi avvenimenti personali e professionali che li riguardano.
Consumata la rapida colazione, con un fare allegro, tanto che si potevano scambiare per turisti, nell’attesa di entrare ai musei, attraversano la grande ed austera entrata, facilitati dagli impiegati vaticani, al corrente dell’iniziativa, che, dopo aver verificato le singole identità, li hanno accompagnati in una stanza dove avrebbero atteso gli altri elementi del gruppo.
Cecilia, pur avendo percorso quei corridoi più volte, nel corso degli anni, provava sempre le stesse emozioni delle prime volte: si sentiva coinvolta da quell’edificio e da quel luogo, “sentiva” di camminare sulla e nella storia dell’arte e della religione e respirava a pieni polmoni quell’atmosfera di eterno e di bellezza che sprizzava da ogni parete, pavimento, volta, arredo, quadri e statue che incontrava. Sentiva, quasi come se lo vivesse realmente, che stava attraversando i secoli, con gli occhi della mente, vedeva tutti i personaggi più o meno illustri che erano passati in quei luoghi. Subiva in pieno la magia ed il fascino che solo i luoghi della storia e dell’arte sanno trasmettere, in particolare alle persone di grande sensibilità come lei.
Quando il gruppo di lavoro è completo, il professore che lo coordina spiega l’attività da svolgere nei prossimi mesi, che in breve, si può riassumere così: questi studiosi, avrebbero dovuto riorganizzare la sistemazione dei reperti etruschi di alcune sale, rivedendo i criteri espositivi ed inserendo altri numerosi reperti, sinora conservati nei sotterranei, in base alla provenienza, alla loro datazione ed al loro pregio, elementi, questi, che se non fossero già stati sufficientemente definiti, andavano studiati e concordati, alla luce delle ultime conoscenze acquisite sulla civiltà e storia etrusca. Si doveva ampliare la mole dei reperti da rendere visibili ai visitatori e gli studiosi avrebbero ricostruito, se del caso, il loro percorso storico ed artistico. Il professore che già aveva visto, più volte, il materiale da portare definitivamente “alla luce”, afferma con enfasi, che gli archeologi, si sarebbero trovati di fronte a pezzi di rara bellezza ed in ottimo stato di conservazione, relegati finora nelle casse o su dei polverosi scaffali, per la mancanza dei fondi necessari a compiere questo delicato lavoro.
“Ora i fondi ci sono, quindi, diamoci da fare!”
I primi giorni sono dedicati ad organizzare i gruppi di lavoro e ad ottimizzare il percorso lavorativo secondo le precipue competenze tecniche di ognuno dei partecipanti.
Cecilia, è assegnata alla squadra che avrà il compito di stabilire, con il massimo dell’approssimazione, la data del reperto da recuperare al museo e la sua sistemazione museale.
Sono trascorse circa tre settimane. Il lavoro procede con un buon ritmo e con immutato entusiasmo da parte di tutti, di Cecilia in particolare. Il maneggiare oggetti così antichi e preziosi, pur se, il più delle volte, sono articoli di semplice fattura, destinati ad un uso quotidiano, le procura grandi emozioni. Il suo stato psicologico durante questi giorni, ne è così condizionato che ne parla in continuazione, con tutti coloro che incontra fuori dal tempo dedicato al lavoro, quasi volesse comunicare e far partecipi del suo entusiasmo, parenti ed amici, indifferentemente. L’attenzione di questi, ovviamente, è molto variegata, ma nessuno se la sente di mortificare tanto entusiasmo, con espliciti tentativi di distoglierla dall’argomento. La passione che lei mette nel suo lavoro ed in questo in particolare, fa sì che tutti l’assecondino, in varia misura.
Anche la notte non le consente di acquietare quel sacro fuoco che l’arde, perché sovente si trova a pensare a quello che deve fare ed a come farlo al meglio, rimuginando nella sua mente, tutta una serie di nozioni e di riferimenti che l’avrebbero sicuramente agevolata nel compito.
In poche parole sta somatizzando, forse troppo, questo lavoro, con il rischio di stressarsi oltre misura.
In questa condizione psicologica, in un giorno di lavoro relativamente più tranquillo, si accinge ad aprire una cassa, ancora intatta, che contiene quattro buccheri.
Il bucchero è una denominazione d’origine moderna, risale al XVII secolo, d’origine portoghese, che si riferisce alla tecnica ceramica adottata per modellare e rifinire il manufatto e non riguarda, quindi, una specifica forma di ceramica.
La sua particolarità sta nella lavorazione dell’argilla ferrosa che è il componente primario dell’impasto, che dopo essere stato plasmato nelle numerose forme, ad ognuna delle quali corrispondeva uno specifico uso, era, poi, cotto, in forni chiusi a bassa aerazione, in modo che il ferro contenuto nell’impasto si ossidasse, diventando nero e lucido.
Questa caratteristica si è mantenuta inalterata nei secoli. Esistono, infatti, buccheri a forma d’anfore, di coppe, più o meno grandi, con manici di diverse forme come i Kylix, i Lekythos, i Kanthares, gli Stamnos ecc.
Cecilia estrae con molta cautela i buccheri dalla cassa, liberandoli, con delicatezza, dai fili di paglia che li proteggevano. Il primo, una coppa nera con due piccoli manici; poi il secondo, un contenitore piccolo affusolato, come un’anfora in miniatura, sicuramente destinato a contenere unguenti o profumi; poi il terzo, un pelike, un vaso panciuto, con due manici e orifizio ampio, quest’oggetto era destinato a contenere l’olio.
L’ultimo pezzo era ancora tutto coperto da uno spesso strato di paglia, quasi come se, chi l’aveva riposto tanti anni fa, avesse voluto usare delle precauzioni in più, per proteggerlo.
La circostanza incuriosisce, maggiormente Cecilia, che appena liberatolo dalla paglia non poté trattenere un moto di meraviglia che le fece proferire: ”Mio Dio! Ma è una meraviglia, questo pezzo. Come hanno fatto a non accorgersene all’epoca! Lasciarlo così nascosto, per tutti questi anni. Solo uno sprovveduto ignorante, poteva inventariarlo come pezzo di poco valore e lasciarlo in un sotterraneo!”
Cecilia, rilegge con più attenzione la scheda attaccata sulla cassa. Essa è solo un elenco dei quattro pezzi, con l’indicazione della zona di provenienza, Vulci, senza specificare con precisione la loro natura, né tanto meno le loro caratteristiche salienti. Così facendo, un pezzo, già a prima vista pregevole, era stato colpevolmente abbandonato all’oblio.
Cecilia continua a rimuginare dentro di sé sull’assurdità della cosa e si appresta ad estrarre, quello che, a prima vista, le sembra una Kylix.
Infila le mani nella cassa, sposta la residua paglia che ancora copre i manici, li afferra, avendo cura di porre sotto la coppa anche le altre dita, nel dubbio che essi dovessero cedere nell’azione di sollevamento e…avverte una leggera vertigine. Si affretta a posarla sul tavolo, con la paura di causare un danno. Appena messa in salvo, si siede per riprendere fiato. Il cuore le batte forte per l’emozione e per lo scampato pericolo che quel malessere repentino poteva rappresentare. Tornata padrona di sé, si alza e si versa un bicchiere d’acqua che trangugia tutto di un fiato, dopo di che trae un gran respiro liberatorio.
“Chissà cosa m’è preso?” Pensa con una certa apprensione.
“Forse ho lavorato troppo in questi ultimi tempi…troppa ansia…troppo coinvolgimento e poi, pure le notti in cui non riesco più a riposare bene. Bisogna che mi dia una calmata, a momenti rischio un collasso e con quel Kylix in mano…poi, proprio quando trovo uno dei pezzi più belli di tutti questi giorni! Mamma mia!.meglio non pensarci. Ora esco qualche minuto, vado a prendere un bel caffè e mangio anche qualcosa, così mi distraggo e mi rilasso un po’!”
Cecilia mette in atto il suo proponimento e si concede un’ora di pausa.
Dopo circa un’ora è di nuovo di fronte al tavolo dove sono poggiati i reperti. Sta sicuramente meglio, la pausa l’ha rinfrancata.
Si avvicina alla kylix e comincia ad osservarla con cura.
Questa coppa era usata abitualmente per bere il vino, è più grande di un bicchiere o di un calice, sembra più una bacinella con un piede centrale, visto che misura una ventina di cm di diametro. Nella parte centrale c’è un’immagine mitologica di un guerriero, con tanto d’elmo, corazza e schinieri, splendidamente riprodotto con maestria nei particolari, il tutto assume un rilievo particolare, se si considera che quest’artistico tondo non è più grande di sette cm!
Cecilia ammira estasiata, con l’aiuto di una gran lente con la luce incorporata, i dettagli della miniatura. All’esterno la coppa reca l’iscrizione piuttosto consueta per questo tipo di coppe: ”Salve e bevi”.
Quest’oggetto le ricorda qualcosa di già visto, ha una sensazione che esso possa essere ascritto allo stesso autore di un’altra kylix, rivista nei giorni scorsi nella sala XVI o XVII dei musei vaticani, denominato “il pittore di Phrynos”, di Vulci, appunto, tanta è la somiglianza sia nella fattura che nella qualità della raffigurazione. Si riserva di controllare quanto prima, perché se così fosse, sentito anche il parere del professore, la sua collocazione temporale sarebbe immediata ed anche la sua destinazione in quel settore dei musei.
Bene! Ora è il momento di esaminarla più da vicino ed in tutti i suoi aspetti, per verificarne lo stato di conservazione e per fare una necessaria opera di pulitura.
Avvicina le mani alla coppa, nell’intento di controllarla, evitando, però, di sollevarla completamente, facendo i suoi controlli in modo che una parte del piede sia sempre poggiata sul morbido panno steso sul tavolo.
Appena la tocca, ecco che, di nuovo, è colta da una vertigine, prodotta da una strana sensazione che l’oggetto che sta toccando le trasmette. Cecilia, vorrebbe staccarsi dalla kylix, però non vi riesce…è come se una forza inspiegabile la trattenesse e le impedisse di allontanare le mani da essa. Ha l’impressione di essere percorsa da una specie di corrente elettrica di bassa potenza che dalle mani, lentamente le s’irradia per tutto il corpo, fino al cervello. Quando questa corrente, questo fluido sprigionatosi dalla materia della coppa giunge nella sua mente, lei perde il contatto con la realtà e con tutto quello che la circonda e si trova proiettata in uno scenario a lei completamente sconosciuto. Vede un ampio territorio fitto di vegetazione modulato da colline boscose e valli ridenti. Come spinta da una forza sconosciuta ma delicata, volge il suo sguardo tutt’intorno e vede anche un gruppo di case dalle fattezze sconosciute ed in particolare una di esse, verso la quale è attratta irresistibilmente. Su di un lato di questa casa, nota un locale dal quale esce un fumo sottile e da cui provengono rumori tali da far pensare al lavoro di uno o più artigiani. Gli occhi della mente di Cecilia, guidati dalle strane vibrazioni, si affacciano sulla soglia della bottega e con sorpresa vedono un artigiano, vestito di panni che, finora, lei aveva visto solo negli affreschi e nelle pitture sulle ceramiche. Egli teneva in mano, con evidente soddisfazione, mostrandola agli altri lavoranti nella bottega, la kylix che lei aveva tolto dalla cassa, l’aveva appena terminata e, pur se non comprendeva una parola di ciò che dicesse, si percepiva l’orgoglio di chi aveva appena realizzato un’opera d’arte.
Un altro brivido percorre il corpo di Cecilia ed ecco che si affaccia dinnanzi a lei un’altra scena, che vede la coppa sempre protagonista: una sala grande e sontuosa dove si sta svolgendo un simposio, dove numerosi personaggi vestiti con sfarzo e ostentanti ricchi monili d’oro, mangiano mollemente adagiati e si divertono molto a giudicare dal tono delle voci e dalle risate che riempiono rumorosamente la sala; la persona che sta al centro del convivio, cinta da una corona d’oro, probabilmente il Lucumone della città, tacita la compagnia e sollevando la kylix, invita tutti a bere con lui, cosa che tutti fanno…
“Cecilia, Cecilia…Cecilia, mi senti?” “Che le avrà preso, è diventata sorda?” Pensa Renata, la sua collega ed amica, affiancata a lei nello svolgimento di questo lavoro.
“Cecì…Cecilia” Non vedendo reazioni, la scuote ponendogli una mano sulla spalla.
“Cecilia ci sei? Sono Renata…che fai dormi con gli occhi aperti?”
Cecilia si scrolla di dosso il torpore in cui era sprofondata.
“Ah, sei tu Renata!”
“E chi doveva essere, Cecilia? Non stai bene? Mi sembri imbambolata…”
“No, no, sto bene, non ti preoccupare, ho appena fatto un viaggio in Etruria…”
“E dici di stare bene…non mi sembra Cecì. Vieni, alzati e andiamo via, per oggi, abbiamo lavorato abbastanza. Dai andiamo a casa, fatti una bella dormita e domani sarai in piena forma! Forza, sistemiamo e chiudiamo!”
“Va bene, andiamo.” Risponde Cecilia, ancora preda di un lieve stordimento. “Andiamo.”
Percorsi i lunghi corridoi del museo e guadagnata l’uscita, entrambe si avviano, costeggiando le mura vaticane, verso la zona dove Renata ha parcheggiato la macchina.
Strada facendo, Cecilia si rivolge a Renata: “Renata, tu credi che sia possibile che gli oggetti abbiano la capacità di conservare una specie di memoria e anche di trasmetterla, in certe condizioni, a coloro che li toccano?”
Renata che ormai è arrivata alla macchina, le risponde: “ Si, non so, boh! Ne parliamo domani, eh Cecì…a mente fresca si ragiona e si discute meglio.” Disse sollevando gli occhi senza che Cecilia se ne accorgesse.
“Adesso Sali in macchina che ti accompagno a casa!”
“Sì, sì, ne parliamo domani.” Risponde Cecilia e, come se fosse in trance, mentre apre lo sportello continua a ripetere, più volte: “Sì domani, domani…ne parliamo domani.”
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