IL MAESTRO MANZI

Il Maestro Manzi

 Per quelli della mia generazione, la figura del maestro elementare è stata basilare.

Essa rappresentava il primo contatto con un’autorità morale esterna alla famiglia, che, proprio per non essere un familiare, esercitava un potere ed aveva un carisma, anche superiore a quello dei genitori.

Detta autorità, peraltro, era avallata e supportata dagli stessi genitori, che mai si sarebbero messi in conflitto con essa, nella quale riponevano la massima fiducia.

Questa è già una delle principali differenze con la figura magistrale odierna, che spesso si vede contestata dai genitori degli alunni, troppo inclini a giustificare le manchevolezze dei figli, perché non in grado, a loro volta, di gestire la propria responsabilità di padre e di madre, che presuppone un comune accordo e la giusta severità ed autorevolezza, i soli requisiti idonei ad educare il bambino ad affrontare il futuro e le vicissitudini della vita.

I genitori, però, sia per una reazione alla loro educazione, giudicata eccessivamente severa ed autoritaria, sia per un’insipienza psicologica, tendono a delegare, sempre di più ad estranei, l’importante compito della formazione morale del bambino, salvo, poi, non accettare le forme di severità, alle quali, per incarico, devono attenersi i maestri, da loro delegati, paventando chissà quali turbe per i propri figli.

Due sono state le figure magistrali che mi hanno accompagnato nei primi anni di scolarizzazione: Il maestro Manzi ed il maestro Bellini (nipote del musicista Vincenzo).

Quello che ricordo con maggior nostalgia ed affetto, sia pure attraverso la fitta nebbia del tempo della memoria, per gli oltre cinquanta anni trascorsi, è Alberto Manzi.

Esemplari erano: la simpatia che suscitava in noi bambini e la sua capacità comunicativa, con la quale ci coinvolgeva, anche così piccoli, nel suo programma educativo, senza che esso fosse noioso e distaccato.

Queste sue qualità, furono tanto più efficaci, in particolare con me, che fui assegnato alla sua classe, la prima elementare, a soli cinque anni, perché avevo acquisito le capacità di leggere e scrivere, già sul finire dei quattro anni.

Ciò fu possibile perché, avendo una madre insegnante, che impartiva lezioni private a numerosi alunni, io avevo assimilato una gran messe di nozioni, per il solo fatto di ascoltarle in continuazione. Se a ciò, si aggiungono gli esercizi di scrittura e di lettura, che mi faceva eseguire mia madre, ecco che a soli cinque anni, ero diventato un piccolo genio, già in grado di leggere e scrivere (anche… Topolino).

Gli occhi della mia memoria, si rivolgono all’anno scolastico 1950/51, seconda classe della Scuola Elementare Fratelli Bandiera, per soffermarsi, con nostalgia e simpatia, sul ricordo di uno dei suoi metodi didattici, con il quale riusciva a catturare l’interesse dei suoi scolari ed a spronarli a “studiare”, per “imparare”.

 L’edificio scolastico, già vetusto in quegli anni, aveva delle aule spaziose, dei corridoi larghi e lunghi, con gli attaccapanni sulle pareti, rigidamente bicolori.

La mia aula, aveva due grandi finestre che si affacciavano sulla piazza antistante la scuola che illuminavano tutti i banchi posti parallelamente ad esse, dal nostro lato destro. Di fronte a noi, la cattedra, posta su di una pedana di legno, perché fosse ben visibile da tutti gli alunni e perché fosse anche un segno evidente dell’autorità magistrale, che su di essa si poneva.

Il maestro era, ancora a quei tempi, una figura di rilievo nella società italiana, in particolare nei piccoli centri, dove era ossequiato e rispettato, come e quanto le autorità civili, religiose e militari. Nelle piccole comunità, quest’aureola di rispettabilità e d’importanza era amplificata dalla circostanza che, nel caso di maestri anziani, quasi tutti i cittadini, importanti e non, erano stati loro discepoli e nessun altro ne conosceva così bene i pregi ed i difetti.

L’aula dei F.lli Bandiera era bicolore anch’essa: un verde tenue, fino ad un’altezza circa di una persona adulta, per proseguire fino al soffitto con una tonalità gialla chiara.

I due colori erano separati e delimitati da una sottile bacchetta di legno, che correva lungo tutto il perimetro dell’aula.

Il maestro Manzi, con una di quelle sue brillanti intuizioni didattiche, aveva trovato il modo di sfruttare quella bacchetta di legno per i suoi fini educativi.

In quegli anni, oltre il calcio, il ciclismo era uno degli sport più seguito ed amato dagli Italiani. Non dimentichiamo che, solo due anni prima, la vittoria di Bartali al giro di Francia, contribuì non poco, ad alleggerire la tensione creatasi in Italia, in seguito all’attentato a Togliatti, perpetrato proprio negli stessi giorni.

Sfruttando la popolarità di questo sport e dei suoi campioni, il maestro Manzi, ebbe l’idea di assegnare a ciascuno di noi alunni, il nome di un campione ciclistico. Egli, poi, li scrisse su delle piccole sagome, raffiguranti dei ciclisti in piena azione, poste su quella bacchetta di legno, che faceva il “giro” di tutta la classe, partendo dalla porta per tornare all’altro lato della stessa.

Ognuno di noi partecipava al “giro dell’aula” ed il maestro distribuiva i voti di merito a ciascun corridore, secondo il suo rendimento ed il proprio impegno scolastico, in base ai quali procedeva lungo quella bacchetta, per, poi, giungere al “traguardo” della porta.

Questa idea così semplice ed al tempo stesso così geniale, innescò una vera e propria competizione fra noi, quasi come se stessimo effettivamente pedalando, per superare le asperità delle “tappe” e salire il più possibile nella classifica generale, per magari conquistare la maglia rosa e vincere il “giro!”

Non ricordo, dati gli anni trascorsi, a quale corridore fui accoppiato, né come mi classificai, ma ciò ha poca importanza. La cosa più bella era che, noi bambini, avevamo imparato a competere in maniera leale e sportiva ed avevamo anche imparato che non si vince senza impegno e fatica.

Purtroppo, ho vissuto solo due anni con il maestro Manzi, perché l’anno successivo, cambiai casa e frequentai le altre tre classi elementari, sotto la guida del maestro Bellini, nella scuola dei Padri Maristi in via Livorno.

Il filo che mi legò a quella straordinaria persona, in ogni modo, non si recise e ci tenne uniti ancora per tanti anni, grazie al periodico scambio di lettere e cartoline d’auguri, in occasione delle festività più importanti.

Non fu certo per un caso, che il Maestro Alberto Manzi, fu chiamato a condurre un programma famosissimo, nella neonata televisione italiana, dal titolo: “Non è mai troppo tardi”, il cui intento era di alfabetizzare la maggior parte delle persone, che nell’Italia degli anni cinquanta, ancora non sapevano leggere e scrivere.

Con commozione e deferenza, al mio primo e più grande maestro.              

 

 

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