IL PROFESSORE ANGELO DE MAJO

Questo racconto ha ricevuto il secondo premio nella sezione dei racconti inediti, il 15 gennaio 2015 nell’ambito del XVIII concorso internazionale di poesia e letteratura, indetto dall’associazione culturale Emily Dickinson di Napoli.

 

Sono gli ultimi giorni dell’anno scolastico del 1992, il professor de Majo  si alza alla medesima ora di tutte le mattine. Compie, con meticolosa ripetizione, tutte le azioni riguardanti l’igiene del corpo, la vestizione, la preparazione della sua borsa in cui ci sono gli appunti per le lezioni che terrà nel “suo” liceo classico, alcuni libri di approfondimento, saggi sulla storia e sulla filosofia che possano essere utili per la sua attività didattica, In essa non mancano penne e matite, la foto dell’amata moglie, morta da diversi anni a causa di un “male incurabile”, come si suol definire qualsiasi malattia sulla quale nessuno è ancora riuscito a trovare un rimedio definitivo.

Da quando è rimasto solo non prende più il caffè a casa, abitudine inveterata che condivideva con la sua Rosa e che ha interrotto perché, anche a distanza di anni, il rito del caffè mattutino, tanto caro ai napoletani, lo fa ancora soffrire. Non è facile continuare una tale consuetudine che rappresentava molto di più della semplice assunzione della nera e gradita bevanda, ma costituiva la prima gratificante azione quotidiana insieme alla compagna della sua vita, cui era legato da un grande amore, nonostante i tanti anni trascorsi insieme ed il progressivo inevitabile declino indotto dall’età.

Il caffè l’avrebbe preso come tutte le mattine degli ultimi anni nel bar vicino al Liceo “Alfredo Pansini”, intitolato ad una delle vittime delle famose “quattro giornate di Napoli: 27 settembre, 1 ottobre 1943”, un ragazzo di soli venti anni immolatosi, il trenta di settembre, per contrastare i tedeschi, anche avendo la possibilità di allontanarsi, spinto dai suoi ideali che il padre Eduardo, uno dei comandanti della rivolta gli aveva insegnato e spiegato sin da piccolo.

Il professore ha sempre ammirato, fin da ragazzo, questo personaggio ed il suo gesto di eroismo, condividendone in pieno le sue connotazioni ideali. Lui classe 1927, all’epoca dei fatti, era troppo giovane, appena iscritto al liceo classico Sannazzaro, ma ricorda bene quei tumultuosi giorni e spesso ne fa oggetto di discussione con i suoi alunni.

La formazione classica del professore è maturata nell’ambito familiare, dove entrambi i genitori erano dotati di una buona preparazione culturale ed erano amanti della letteratura e delle arti. Condividevano, inoltre, il pensiero di Benedetto Croce, il noto filosofo abruzzese, naturalizzato napoletano (si trasferì a Napoli a venti anni nel 1896 e vi morì nel 1952). Non lesinarono, quindi, i giusti stimoli culturali al loro figlio, senza eccedere, ma avendo cura d’insegnargli il metodo speculativo e l’atteggiamento critico razionale verso qualsiasi argomento e fenomeno.

“Caro figlio mio tu devi sempe raggiunà co’ ‘a capa toja e non farti influenzare da niente e nisciuno!” Ripeteva spesso il padre Alfonso con quel linguaggio misto dialetto italiano, proprio della gente della Napoli bene ed istruita.

Il professore, seppur giovane, ha fatto in tempo a conoscere il Croce e ad ascoltarlo all’università di Napoli Federico secondo (la più antica università laica del mondo!) prima dell’ictus che lo colse nel 1949.

Da qualche mese, nell’animo del professore si è insinuato un pensiero che lo opprime. Anche lui, più di dieci anni prima, era stato colpito da una malattia che poteva essere letale, ma, nonostante le scarse probabilità che c’erano, riuscì a superarla ed a riprendere in pieno la sua vita. Per la sua cara Rosa, invece, non fu così.

Ora, quel destino che allora gli fu clemente, sembra che voglia riprendersi le redini della sua vita e condurlo alla fine anzitempo.

“Professore sono desolato, ma dai risultati clinici che abbiamo ottenuto, devo comunicarle, con la mia abituale sincerità e come lei stesso mi ha sempre detto, che le probabilità che il suo male compia il suo malaugurato percorso, oscillino fra i sei mesi, un anno al massimo.”

Con tale franchezza l’illustre clinico, che l’ha in cura fin dal primo episodio di anni fa, gli ha pronunciato la sua sentenza.

Il professore non rimase stupito più di tanto, nel suo animo già percepiva che il male sarebbe stato esiziale questa volta e, inconsciamente, lo sperava per mettere così fine alla sua vita che gli sembrava inutile, ormai, priva dei suoi punti di riferimento cardine: la moglie; la figlia sposata e residente all’estero; la scuola che avrebbe presto lasciato per aver raggiunto il limite pensionabile.

Questo è lo stato d’animo in cui versa il professore da alcuni mesi e soprattutto in questi giorni che costituiranno, comunque, i suoi ultimi, la pensione maturerà il prossimo mese di ottobre.

Esce di casa con la consueta puntualità, raggiunge il bar e alla cassa oltre a pagare il suo caffè ed uno “sospeso”, abitudine molto frequente da parte dei napoletani, intendendo con essa pagare un caffè a chi ha qualche problema “economico”, consentendo anche a questi di poter godere della bevanda napoletana per antonomasia. Oggi però, con lo stupore della cassiera, il professore paga con un biglietto da cento euro dicendo: “Tenete pure il resto per i sospesi…” e si avvia subito verso il bancone senza dare il tempo alla cassiera, che lo conosce da tanti anni, di replicare.

“Buongiorno professore, il solito caffè!” gli chiede Francesco il barista solo per scambiare due chiacchiere con il professore.

“No Francè, oggi no!”

“Overo e che vulite allora?” replica stupito.

“Oggi ‘o voglio doppio e sempe carico e caldo!”

“Vulevo dì professò, c’avisse cagnato l’abbitudini soje… oggi s’a da scetà buone eh!”

“E già, m’agge a scetà bene, devo essere molto sveglio ho una lezione importante da fare!”

“O vì loche, ecco o cafè doppio, forte e carico, prufesso’ e a bona salute!”

“Grazie assaje Francesco…”

Beve con gusto il caffè, lascia un biglietto da dieci euro di mancia ed esce rapidamente dal bar.

Entra nel suo liceo, saluta i colleghi che incontra con la solita discreta cordialità e si dirige verso l’aula, dove l’attendono gli alunni della terza A.

“Buongiorno professore!” Fanno all’unisono tutti gli studenti.

“Buongiorno ragazzi, buongiorno.” Replica con voce ferma ma dal tono dimesso, non usuale.

I ragazzi hanno avvertito questa sfumatura e, mentre si siedono, si guardano fra loro come per chiedersi cosa nascondesse quella risposta così diversa dal solito.

Un inconsueto silenzio accompagna le solite operazioni del professore quando si siede in cattedra: poggia la sua storica borsa per terra all’angolo destro del tavolo, estrae alcune carte, dei libri ed il registro. Li posa sulla cattedra e per un po’ resta a fissarli, mentre gli alunni sempre più perplessi continuano a scambiarsi occhiate ed a fare spallucce.

Dopo poco il professore si volta verso la classe ed il suo sguardo s’incrocia, uno dopo l’altro, con quelli dei suo allievi.

“Oggi niente appello, ho visto che ci siete tutti!”

“Poiché è una giornata speciale e l’anno scolastico è praticamente concluso e voi siete più che pronti ad affrontare l’esame di maturità, oggi non si fa lezione in senso scolastico ma faremo, insieme, come vi ho sempre abituato, una lezione estemporanea, una lectio vitae!”

“Benissimo professore siamo tutti d’accordo!” Interviene Andrea uno dei più preparati e brillanti alunni che mai abbia avuto il professor de Majo.

“Grazie Andrea…”

“Prego professore, ma come mai questa novità oggi che non è ancora l’ultimo giorno di scuola, anche se ne mancano solo cinque ancora?”

Il professore che si aspettava una tale domanda, si alza dalla sedia e guardando la sua classe:

“Vero! Oggi non è l’ultimo giorno e poi in quelli finali di un anno scolastico e che per voi rappresentano anche la fine della scuola superiore, si tralascia spesso l’attività didattica per affrontare altri temi, attuali ed umani, legati alla fine del corso degli studi ed alle vostre attese ed intenzioni per il vostro futuro.”

Il professore fa una pausa e nell’aula non si sente volare una mosca. Negli anni trascorsi con lui, gli alunni hanno imparato a stimare e a rispettare quest’uomo di quasi sessantacinque anni che, con la sua cultura, la sua passione per l’insegnamento e con la sua grande capacità di conquistare la loro attenzione e la loro stima, coinvolgendoli con il suo metodo didattico, gli ha fatto “amare” le sue materie: Storia e Filosofia. Risultato non facile per dei ragazzi in età post puberale, appartenenti ad una società che ha svilito ed in certi casi dimenticato i valori più importanti della vita umana, sociale e culturale.

Questa è stata sempre la grande missione che il professore ha portato avanti con pervicacia, con l’immarcescibile convinzione che questa fosse la strada maestra da seguire soprattutto da un professore di Filosofia e di Storia. I suoi insegnamenti sono stati sempre improntati alla massima oggettività ed al massimo equilibrio di tutte le nozioni trattate nei tre anni di liceo, senza mai lasciarsi tentare d’imporre, anche in maniera velata, le sue idee, i suoi convincimenti ed il suo orientamento politico.

“Miei cari ragazzi, permettetemi questa espressione familiare, oggi posso dirlo perché questo è un giorno importante soprattutto per me. Voi avete davanti tutta una vita, coltivate tante speranze e tante passioni, perché gli anni che vi attendono sembrano tanti e tante cose si potrebbero fare. Io, invece, sono arrivato alla pensione ed i prossimi ultimi giorni non sarò più presente in questo istituto e… non solo questo.” Nel pronunciare queste ultime parole la voce s’incrina e s’inceppa e lascia sgomenti i ragazzi che si affrettano a chiedergli:

“Professore c’è qualcosa che non va? Perché ci dice queste parole, la pensione arriva per tutti, prima o poi e nel suo caso dovrebbe essere orgoglioso di lasciare dietro di sé una scia di affetto e di ammirazione come solo lei merita grazie alla sua straordinaria personalità ed alla sua cultura Umanistica in senso lato che ha saputo così “magistralmente” appunto, comunicarci da meritare la nostra più grande riconoscenza e costituire uno dei più bei ricordi del nostro percorso scolastico!”

Il professore ha ascoltato commosso questo intervento di Antonio, altro alunno dotato e, per stemperare il clima triste creatosi, gli replica:

“Caro Antonio dopo ciò che hai detto e di cui sono molto felice, perché la tua sincerità ed onestà intellettuale è fuori discussione, devo riaffermare quello che ti ho detto più volte: tu con la tua proprietà di linguaggio e con la tua ferrea e razionale dialettica, devi diventare avvocato, riusciresti a far prosciogliere, per non aver commesso il fatto, anche un reo confesso!”

A questa battuta del professore segue una spontanea risata collettiva della classe che inneggia all’avvocato Antonio.

“Riprendo il mio discorso interrotto da quel sincero adulatore di Antonio. Non sarò più presente, dicevo, e con quest’affermazione volevo dirvi, mantenendo fede all’impegno preso con voi sin dall’inizio di essere sincero ed onesto su qualsiasi argomento, bello o brutto che fosse, che sono gravemente malato…”

Un rumoroso brusio segue quest’affermazione.

“Ragazzi, per favore, statemi ad ascoltare. Anche questo, purtroppo, fa parte della vita, di quella vita che ho cercato d’insegnarvi come affrontare nel migliore dei modi, oltre alla filosofia ed alla storia che sono, come vi ho sempre detto con un’azzardata metafora, il sistema nervoso ed il sistema circolatorio dell’Uomo, considerato nella sua essenza. Qualcuno di voi ricorderà che vi avevo parlato di una forma tumorale che mi colpì più di dieci anni fa, poi superata con un’insperabile guarigione. Ora, forse quel piccolo mostro che mi colpì si era solo ritirato in letargo e dopo tutti questi anni è ricomparso nel mio fegato, talmente attivo, dopo tutto questo riposo, da non lasciarmi più speranze per il futuro, tanto che potrei non arrivare a vedere l’assegno della pensione. Il professore che mi cura ha parlato di sei, dodici mesi al massimo!”

Un gelido silenzio cala fra le mura di quella vecchia aula, che forse mai aveva udito un’affermazione simile. Gli studenti sconcertati si guardano e non sanno né cosa dire né cosa fare.

“Vi dovevo una tale notizia perché non mi sarebbe piaciuto, dati i rapporti che ho con voi, che lo veniste a sapere da altre fonti e chissà come. Ho una figlia che vive all’estero che ho già informato, non mi restava che dirlo anche a voi che considero un po’ come i miei figli, spirituali forse, ma sempre figli.”

“Questo giorno, quindi, rappresenta non solo il mio addio alla scuola ma anche alla vita. Addio che consegno a voi quali testimoni della mia eredità culturale e spirituale, affinché non dimentichiate i fondamenti del mio insegnamento ed anche il ricordo di questo professore che ha vissuto da gentiluomo, esercitando questo mestiere come un missionario laico che ha voluto diffondere nelle vostre coscienze, l’importanza del sapere, la capacità critica, ed il razionalismo del pensiero…”

Tutti gli alunni fissano il professore con gli occhi lucidi, qualcuno versa anche calde lacrime specialmente le ragazze del gruppo e seguono le operazioni inverse di prima: il professore riprende la sua borsa e vi ripone le sue carte, il registro e i libri. Poi, sempre in silenzio lo seguono con lo sguardo uscire dall’aula, chiudendo la porta alle sue spalle.

Percorre il lungo corridoio e le scale con passo svelto, mentre copiose lacrime rigano il suo volto. Esce dall’edificio e ritorna a casa dove riesce a dare libero sfogo alle emozioni di una simile giornata.

Il giorno dopo, domenica, come già programmato da qualche tempo, il professore dopo aver preparato tutto l’occorrente per un’uscita in barca esce da casa. Prima di chiudere la porta si sofferma qualche secondo a guardarla, poi chiude con decisione ed esce con la sua sacca e s’immerge nella sua amata Napoli, per dirigersi al porticciolo dov’è ormeggiata, da tanti anni la sua barca a vela, nella darsena della Cooperativa ormeggiatori di S. Lucia, nel suo stesso quartiere di S. Ferdinando.

Quella del mare e della barca a vela è sempre stata una delle sue inclinazioni più importanti, fin da piccolo. Nascere e vivere in una città sul mare e dalle grandi tradizioni marinare induce più facilmente ad appassionarsi al mare ed a tutte le attività che su di esso si svolgono.

Napoli con il suo golfo, con le isole campane vicine e splendide nella loro unicità, con la costa sorrentina ed amalfitana con tutte le loro cittadine rivierasche, gli scorci e gli anfratti, spesso raggiungibili solo via mare, sono una tentazione troppo forte alla quale resistere.

Il professor de Majo appena poté conseguì la patente nautica a vela e per molto tempo ha condiviso con degli amici questa passione, finché, non senza sacrifici, acquistò una barca tutta sua una Catalina 250 di 7,60 metri, adatta alle crociere costiere a breve raggio.

Con questo scafo ha percorso tutte le coste campane e salernitane, è approdato molte volte nelle isole d’Ischia, Procida e Capri, insieme a sua moglie Rosa che lo assecondava con grande piacere e soddisfazione in questa sua passione condividendo con lui il grande amore per il mare. Un mare che, dai tempi protostorici, è stato attraversato e raggiunto dai legni di tutte le civiltà mediterranee note, antiche e recenti, dando quel valore aggiunto in più nel navigarlo, solo vagheggiando, nel silenzio interrotto solo dallo sciabordio dell’acqua sotto lo scafo, su ciò che avveniva in quelle acque nei tempi antichi.

Quante emozioni e sensazioni ha provato insieme alla sua Rosa su quel piccolo veliero che docilmente ha sempre assecondato le sue manovre contribuendo a farlo diventare un esperto marinaio.

Con questi pensieri nella mente è giunto all’imbarcadero di S. Lucia.

“Né prufessò, quanto tiempo è ca nun ce verimme!” Gli dice Ciro, uno dei custodi che lo conosce da quasi trent’anni ed è invecchiato insieme con lui.

“Tene raggione Ciro, ma non sono stato molto bene, almeno per affrontare il mare.”

“E mò state buono allora?”

“Sì, ora sto proprio bene e aroppo ‘na jurnata accussì bella passata rinto o mare, starò ancora meglio…”

“Chisto me fa piacere assaje prufessò!” Esclama Ciro interdetto dal perché il professore avesse detto dentro il mare e non sopra.

“Mò v’accumpagne a ‘a varca e v’ajute a partì. A benzina ‘a tenite pe’ o mutorino?”

“Nun o tengo a mente Cì, purtatelle nu pucherille!” Gli dice il professore rispondendogli in dialetto, come ha sempre fatto per non far troppo rimarcare le distanze fra lui e Ciro e gli altri che lavorano in quel porticciolo. Poi una divagazione dialettale, ogni tanto, gli ha sempre fatto piacere, come se fosse un recupero delle sue radici.

Il professore è a bordo della barca, tutto è a posto, il motore di scorta per le manovre è stato rifornito e si è avviato senza difficoltà, nonostante la lunga inattività. Appena uscirà dal porticciolo, giunto alla debita distanza, dispiegherà la randa Marconi e più avanti anche il fiocco.

“Salutamme prufessò, ce verimme cchiù tarde, comme o soleto!”

“Ciao Ciro… addio…!”

<Stu professore è strano assaje ogge, m’è ritte addio, nun l’ave mai ritte ‘na cosa accussì, mah, cu sti professore chi ce capisce è bravo!>

Lentamente la barca si allontana dalla costa, mentre Ciro la segue con lo sguardo finché non è issata la vela, poi torna alle sue incombenze, sono le ore 10,30.

Il mare è quasi calmo, increspato leggermente da una lieve brezza di terra, la randa si gonfia appena e l’andatura della barca non supera i 4/5 nodi.

Il professore ha messo la prua verso lo specchio di mare che separa punta Campanella da Capri. Durante l’incedere lento e costante della barca egli, mentre tiene il timone, ricorda tutta la sua vita, i momenti più importanti e salienti di una vita che, fino alla malattia di Rosa, è stata appagante e serena. Rivive i momenti atroci delle sofferenze della moglie e la sua angoscia nel sentirsi impotente davanti ad esse. Rivede, in tutti i particolari, la scena degli ultimi istanti di vita: incosciente ormai da qualche tempo e senza poter più comunicare con lei, ridotta ad un involucro disfatto dagli immondi insulti del male che la stava uccidendo. Ricorda bene il rantolo dell’ultimo inutile respiro che pose fine alla sua agonia, lasciandolo solo definitivamente.

“Rosaaaaaaaaa, Rosa mia… perché, perché…” Quest’urlo straziante ha lacerato il silenzio del mare che, per un attimo sembrò fermare anche il suo moto eterno, non udendo più il suo sciabordio contro la chiglia.

Angelo, ora è soltanto Angelo, tutto il resto è alle spalle e non conta più nulla, lascia il timone e ammaina la randa e la barca rimane quasi immobile, ora sì che il silenzio sembra totale. Capri e la penisola sorrentina sono ancora lontane anche se ben visibili.

“Cara Rosa io non subirò la tua sorte, non posso nemmeno immaginare di finire consumandomi un poco alla volta e perdendo le mie facoltà gradualmente. Tu sai quanto per me sia stato importante fruire della libertà della mia mente in tutte le attività e non sarà un informe mostro parassita a privarmene: sarò io stesso a decidere come lasciare questa terra. Non ho mai creduto a ciò che la religione afferma: che ci sarà un’altra vita oltre la morte e tutto ciò che ne consegue, la mia, la nostra razionalità ci ha sempre impedito di prestare fede a queste credenze. Abbiamo sempre confidato nell’autonomia del pensiero e nella libera scelta intellettuale cui affidare la gestione della nostra esistenza, secondo dei canoni puramente naturali che travalicano i limiti delle numerose religioni che sono sorte in tanti secoli, al posto dell’unica, vera ed immutabile religione che è quella della vita secondo natura!”

Termina così il suo colloquio con Rosa che gli ha dato la forza d’animo di mettere in pratica il progetto da lui meditato già da alcuni mesi.

Prende la sacca che ha portato con sé, estrae un foglio su cui ha scritto alcune cose per coloro che saliranno sulla barca, quando si metteranno alla sua ricerca. Prende una vecchia cintura che usava tanti anni fa per la pesca subacquea con dieci chili di piombi attaccati, l’allaccia stringendola ai fianchi, si guarda intorno per l’ultima volta, sale sulla murata e si tuffa nel “suo” mare.

Il peso dei piombi lo trascina inesorabilmente verso il fondo, vede la luce del sole affievolirsi tremante sul pelo dell’acqua, diventa tutto più buio, la luce si allontana sempre di più, un riflesso condizionato gli fa aprire la bocca e l’acqua irrompe nei polmoni soffocandolo. Continua a scivolare verso il fondo con gli occhi aperti verso l’alto incapaci, ormai, di vedere.

Sono le 19 quando Ciro si accorge che il professore non è ancora rientrato nel porticciolo, il suo posto barca è vuoto.

“Cumme maje o prufessore ancora nun è turnato, tutte l’ate vote steve ca massimo a ‘e cinche… nun è normale chesta  cosa! Mò ‘o chiamme pe’ radio.”

Ciro corre nell’ufficio della cooperativa e cerca inutilmente di mettersi in contatto con il professore. Non perde altro tempo e avvisa la guardia costiera per dare l’allarme che la barca a vela, una Catalina 250 denominata Rosa, non è rientrata al porto, specificando che normalmente il professore faceva un giro all’interno del golfo verso Capri e Sorrento.

La Guardia Costiera ha subito allertato le imbarcazioni in mare più vicine alla zona indicata: hanno ancora un paio d’ore circa di luce per trovarla e se l’indicazione è esatta, possono trovarla in breve tempo.

Così è stato. Una motovedetta veloce costeggiando ad un miglio di distanza la penisola Sorrentina, avvista una barca senza velatura che va alla deriva verso la punta Campanella. Le condizioni del mare e la caduta del vento al tramonto hanno consentito di trovarla velocemente perché non si era allontanata di molto dal punto in cui si era fermato il professore. Questo i marinai non potevano saperlo ma l’importante era averla ritrovata. Abbordano la barca e due marinai salgono a bordo della Rosa. Date le dimensioni del natante non ci vuole molto a rendersi conto che non c’è nessuno.

“Con un mare così com’è possibile che la persona che conduceva la barca sia caduta fuori bordo?” Dice uno dei marinai.

“Chissà forse un malore gli ha fatto perdere i sensi mentre era vicino ai bordi dello scafo ed è caduto in mare…”

“Può essere il comandante ci ha detto che il proprietario è una persona anziana di quasi sessantasei anni, esperto marinaio, ma un malore può arrivare a chiunque all’improvviso.”

Il comandante della motovedetta ordina che lo scafo sia rimorchiato nel porticciolo di Sorrento e che l’altra barca che sta arrivando faccia dei giri concentrici da questo punto verso il largo per cercare un eventuale corpo in mare.

Mentre il comandante dà queste disposizioni, uno dei due marinai entra nella piccola cabina con la speranza di trovare qualcosa che l’aiuti a capire. Sul tavolinetto trova un foglio fermato da una scatola pesante, lo sfila e lo porta fuori per leggerlo con l’ultima luce del giorno.

Spruzzi lievi d’acqua salmastra,

raggi purpurei di sole calante,

brezza vespertina densa di profumi,

colpiscono il mio immoto corpo.

Fisso lo sguardo verso l’utero primordiale.

Odo il suono infinito delle acque placentari.

Sono avvolto dalle sensazioni eterne

dell’essenza dove è comparsa la vita

e da dove si sono sviluppate tutte le altre.

M’immergo dentro di Lei lentamente,

il suo liquido vitale tutto mi avvolge.

A te mare, che hai generato la vita,

restituisco la mia!

“Comandante leggete questo foglio, chist’omme era nu prufessore vero? Allora chiste versi spiecano tutto!” Dice il marinaio.

“Vero Francesco, chist’omme s’è suicidato e, forse, nun ‘o truvamme maje! E ‘a poesia è pure bella. Legate bene le cime e rimorchiamo in porto questa barca.”

Il giorno successivo la notizia della scomparsa del professor Angelo de Majo è sulla prima pagina del Mattino con un rimando ad un articolo nella cronaca di Napoli.

Nel liceo Pansini la notizia è sulla bocca di tutti, professori e studenti.

I ragazzi della terza A non ci mettono molto a trarre le giuste conclusioni, dopo le parole del loro insegnante di due giorni prima.

Se possibile, questa scelta estrema di lasciarsi morire piuttosto che soffrire per il tumore, ha suscitato in loro un sentimento di comprensione e di condivisione di un tale gesto, da farlo apparire ancora più grande ai loro occhi: un esempio di coerenza, d’integrità morale e di fermezza di principi, fino alla morte.

Un misto di tristezza ed orgoglio, per aver avuto un docente come lui, si legge chiaramente su tutti i volti dei suoi alunni che hanno compreso ed apprezzato anche questa sua “ultima lezione”.

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